giovedì 29 aprile 2010

GIUDA

GIUDA vol I (di VI) (2009, GIUDA edizioni, brossurato, 64 pagine in bianco, nero e toni di grigio).
A cura di Gianluca Costantini con la partecipazione di Armin Barducci, Ciro fanelli, El Cubri, Rocco Lombardi, Angelo Mennillo, Robert Rebotti - Jacklamotta, Alice Socal, Elettra Stamboulis e Gianluca Costantini.
[Anteprima sfogliabile]


Se siete in cerca di divertimento effimero e fine a se stesso non avvicinatevi a GIUDA. GIUDA (acronimo di Geographical Institute of Unconventional Drawing Arts) è il regno dell’immagine e al suo interno tutto passa per un filtro fortemente visivo, dalla narrazione all’indice, con l’eccezione (ci vuole sempre, e non è mai casuale) della poesia nel bandella di apertura e del breve racconto di pagina 59, che in questo modo spiccano tra gli altri contributi e acquistano un valore fortemente simbolico. Tutto è immagine, anche il sommario, costruito attorno alla scomposizione di una pistola, il cui proiettile non può che essere il messaggio complessivo della rivista e il bersaglio, di conseguenza, l’orientamento che questa sceglie di darsi.

Riporto dal manifesto della rivista:
Giuda indaga il tradimento delle immagini.
Lo fa usando il disegno in forma intensiva, cartografando il dicibile e il rappresentabile.
Si pone come uno spazio programmato di ricerca visiva e di estetica.
Insegue i luoghi sulle cartine, sapendo che la mappa non è il territorio, ma è una sua rappresentazione e che a partire dalla cartografia si stabilisce il nostro posto sul mondo e lo spazio che a livello simbolico occupiamo.

Gli elementi portanti, a livello contenutistico, sono: le storie, le pubblicità e le mappe. Nel dettaglio, è possibile trovare:
in copertina il Giuda Iscariota (Gianluca Costantini);
nella bandella di apertura la poesia Dei miei uomini (Elettra Stamboulis);
il sommario illustrato;
l’editoriale, con una versione iconizzata e molto pop della lettera di Frederic Nietzsche a Cosima Wagner (Armin Barducci);
le due storie a fumetti Paisà, racconti di frontiera ambientati nel Marocco in guerra (collettivo El Cubri);
svariate pagine (23) di abitatori illustri del Cimitero di Montparnasse, che di fatto rappresenta il cuore di questo primo volume (Angelo Mennillo, Armin Barducci, Gianluca Costantini, Alice Socal, Robert Rebotti – Jacklamotta, Rocco Lombardi, Elettra Stamboulis, Ciro Fanelli);
Do it yourself coffins insegna a realizzare piccole bare di carta (Gianluca Costantini);
la prima parte della storia a fumetti Ernesto, professore pacifista che rinnega la pace a causa degli effetti della guerra (Ciro Fanelli);
la prima parte della storia a fumetti Piccola Gerusalemme, a mio parere uno degli elementi principali di questo primo volume, che ragiona sul rapporto tra lingua, storia e società (Angelo Mennillo ed Elettra Stamboulis), che comprende anche un racconto privo di alcuna immagine e un’illustrazione della Torre Bianca (riferimento all’omonimo romanzo di Orhan Pamuk?);
Poetic Fashion, che mi sembra essere un'istantanea sull'incomunicabilità (Gianluca Costantini);
Von der Alten Heimat zu der neuen Heimat!, il racconto della fuga dalla Germania di Fritz Freudenheim costruito dall’uomo – allora undicenna – attorto alla mappa che ne illustra gli spostamenti (Fritz Freudenheim e Marco Lobietti);
nel mezzo, ogni tanto, qualcuna delle finte pubblicità realizzate dagli autori.

Partendo da quanto detto nel manifesto di GIUDA risulta semplice muoversi all’interno dei suoi contenuti e della sua necessaria tendenza a “graficizzare” tutto, a contestualizzare, a intrecciare. Le storie si intrecciano con la storia e il territorio, con le mappe, con l’immagine e il testo, quindi con la lingua. La linea della vita si intreccia con la linea della mappa, con la linea della lingua e con la linea dell’immagine. E tutto ci viene riportato attraverso il visuale.
Questa connessione risulta lampante nella storia di Fritz Freudenheim riportata nella bandella di chiusura, in cui narrazione, percorso spaziale e linea del tempo si trovano a compresenziare sulla stessa immagine.
GIUDA è ascrivibile, a mio avviso, all’interno di tutta quella produzione a fumetti che sceglie di avere un sostrato culturale forte, che in certi casi sembra essere imprescindibile per cogliere il significato di quello che viene raccontato. Se vogliamo vederla da un’altra prospettiva possiamo dire che GIUDA spinge a chiudere i buchi di contenuto, cosa che – per quanto mi riguarda – dopo un po’ è venuta automatica nel cercare di capire perché un personaggio storico veniva rappresentato in un determinato modo.
Il tratto è un elemento fondamentale di questa sperimentazione. E se una frase del genere può suonare banale non lo è. Lo vediamo fin dalla scelta della copertina, per la quale Gianluca Costantini ha scelto di modificare una fotografia scattata da Lewis Carroll (intitolandola Giuda Iscariota), servendosi di uno stile che rimanda all’incisione (certo, con l’aggiunta di alcuni colori).

Le mappe sono qualcosa che deve ancora essere raccontato, e che al loro interno contengono già centinaia, migliaia, milioni di storie. E allora si spiega il perché dei racconti a fumetti del collettivo El Cubre e di una storia come Piccola Gerusalemme, in cui ritornano il simbolo della torre di babele, la linguistica, le teorie linguistiche dello storico e linguista georgiano Nikolaj Yakovlevich Marr, e la Torre Bianca, che è sinonimo di conoscenza, e del rapporto tra conoscenza, filtro linguistico e filtro ideologico-religioso.
Le pubblicità sono la chiarificazione della mendacia delle immagini.
Le storie, le immagini, i contenuti profondi e quelli superficiali, si possono collocare sulla mappa, dando il via ad una rete di intrecci e di ipertestualità grafiche (dal pop all’underground, alla tradizione grafica tardo ottocentesca/primonovecentesca), testuali e contenutistiche: ne scaturisce una lettura del contemporaneo, ossia di ciò che fa da ponte tra ciò che era e ciò che sarà.

In un passo tratto dal blog della rivista si può leggere:
Giuda è una dichiarazione d’amore per il fumetto: il fumetto come password della storia, come link all’immaginario globale, come chiave interpretativa assoluta del mondo visto e pensato.
Un programma chiaro, dall’orientamento preciso, per quanto difficile da portare avanti; è la problematica un po’ di tutte le riviste di fumetti, che si perdono per strada, oppure chiudono nell’incapacità di sottostare alle necessità originarie. GIUDA parte come un progetto in sei volumi; per ora non ci è dato sapere se questo sarà un traguardo o un checkpoint, ma non sembra un caso che una rivista che rievoca di continuo la simbologia della mappa e del confine parta prefiggendosi un numero di uscite limitate. Come a dire che si recinta lo spazio in cui operare al meglio.

In GIUDA non c’è paratesto, perché tutto è testo e ogni contributo lavora in sintonia con gli altri per sparare il proiettile/messaggio verso il cervello di chi legge.

mercoledì 21 aprile 2010

CHEW

CHEW vol 1 – Taster’s Choice (2009, Image Comics, brossurato, 128 pagine a colori, $ 9.99; o 2010, Bao Publishing, brossurato, 128 pagine a colori, €13).
Sceneggiatura di John Layman, illustrazioni di Rob Guillory.

Mi scuso con chi legge per il ritardo con cui ultimamente riesco ad aggiornare questo spazio. È un periodo molto movimentato e quando avanza tempo è difficile gestirlo in modo da riuscire a fare tutto quello che si dovrebbe, e soprattutto farlo al livello richiesto (che è cosa importante e su cui prima o poi bisognerà ritornare).

Per prima cosa bisogna dire una cosa: Chew è un fumetto che mi è piaciuto leggere e guardare. PUNTO. All’Emerald City ComiCon di Seattle, tenutosi a metà marzo, Layman ha affermato di avere in mente una direzione ben precisa per la serie, destinata a concludersi con il numero sessanta, del quale ha ben precisa in mente la storia per quanto riguarda i primi trenta numeri e gli ultimi dieci, e in special modo le ultime quindici pagine. Una simile disposizione è già qualcosa che mi fa sperare bene.

Chew in inglese significa masticare.
Chew è una serie investigativa che ruota attorno al cibo in un modo e in un contesto che sembrano allo stesso tempo originali e genuini.
Protagonista è Tony Chu, detective cibopatico, vale a dire che quando mangia qualcosa – con la sola eccezione delle barbabietole – ne percepisce ogni istante di preparazione: cito, “That means he can take a bite of an apple, and get a feeling in his head about what tree it grew from, what pesticides were used on the crop, and when it was harvested” (“significa che può mordere una mela e sentire da quale albero è cresciuta, quali pesticidi o concimi sono stati utilizzati e quando è stata raccolta); e questo vale con qualsiasi tipo di cibo.
Nell’America raccontata sulle pagine di Chew il pollo è illegale in seguito al diffondersi dell’aviaria ed esistono locali in cui viene venduto sottobanco o preparato da ristoratori sospettosi; il tutto in ambientazioni e sequenze che profumano ancora dei tempi del Proibizionismo (quello ’19-’33).
Durante un’indagine Tony scopre qualcosa che non va: mentre sorseggia una zuppa scopre [non vi svelo come] un omicida e lo arresta, spianandosi così la strada per l’FDA (Food and Drug Administration), che con il bando del pollo è diventata la fetta più potente e importante del sistema della giustizia. Tony verrà così assunto per mangiare i resti di crimini irrisolti legati al cibo (ma non solo) per poterli risolvere, si tratti di cibo o di parti di cadavere.

Questo, a brevi linee, è l’avvio in crescendo di una storia che promette molto sotto ogni punto di vista.
Narrativamente si presenta come una serie investigativa originale e avvincente; il rischio è la ripetitività, ma voglio sperare che Layman ne abbia tenuto conto, strutturando la storia a monte. Lo stesso si può dire di scelte narrative e rivelazioni in chiusura dei numeri 4 e 5, delle quali l’autore ha parlato a Seattle garantendo una giustificazione sensata e piacevole.
Guillory è adatto a rappresentare una storia che sta tra il serio e il comico, tra il reale e il bizzarro, con uno stile a metà tra l’underground e il cartoon.

Nel pieno del momento degli zombie Layman e Guillory giocano la carta del detective cannibale, lo “zombie vivo” che non mangia per sopravvivere bensì per scoprire la verità. La verità non è, dunque, qualcosa di remoto e che si potrà svelare solo con immani fatiche, ma diventa immediatamente disponibile, a portata di mano. Perlomeno alcune verità, per altre bisognerà attendere il proseguire della narrazione.
La stessa questione dell’influenza aviaria e del bando del pollame equivale, tutto sommato, ad estremizzare una situazione per vedere come si comporterebbe la società. E, di nuovo, il Proibizionismo ci insegna che mettere qualcosa al bando equivale a generarne una forte presenza su un mercato parallelo e illegale. Questa è la base “reale” su cui si innesta il fantastico [di ogni, davvero :x] e che diviene così un po’ meno irreale. O forse no.

I personaggi chiave ruotano – per ora – tutti attorno all’aspetto del cibo, da Tony al suo misterioso collega, Mason Savoy, fino alla donna di cui Tony è innamorato, Amelia Mintz. Lo stesso compagno di Tony alla polizia rientra in questa cerchia, dal momento che è assolutamente dipendente da qualsiasi tipo di cibo spazzatura, caffè, alcool e dolci.
Amelia è un personaggio interessante. Amelia è un critico gastronomico e come Tony ha un dono particolare, ossia quello di essere una saboscrivner, in grado di scrivere di cibo con tale precisione che chi legge si sente come se stesse effettivamente mangiando quello di cui si parla. Amelia è tuttavia annoiata dal proprio lavoro e, come conseguenza, recensisce solo ristoranti di categoria infima, causando violenti conati di vomito e intossicazioni a chi legge.
Una metafora del potere della stampa? Forse. Sarebbe stupido escluderlo, del resto.
In fondo il compito del giornalista è [diciamo sarebbe, con il giornalismo opinionista fiorito negli ultimi decenni questo imperativo categorico è diventato piuttosto interpretativo] raccontare la verità, cosa che Amelia con dovizia di dettagli. E quando la verità è qualcosa che non ci piace come reagiamo? In questo caso è lo stomaco a ribellarsi, nel caso di verità più profonde è [o dovrebbe] essere la coscienza. A dire che di fronte a certi avvenimenti o situazioni, se tutto prosegue come se niente fosse significa che c’è qualcosa che non va a monte. Che qualcuno copre qualcun altro o che non c’è abbastanza forza [voglia? palle?] per la giusta reazione.

Resta il fatto che, ancora una volta nel giro dello stesso volume, al cibo viene appiccicata l’etichetta di “verità”. La verità passa per il cibo e, se ammettiamo che il vero sia il reale, allora la società passa per il cibo. E se la società passa per il cibo allora è interessante notare le due modalità di approccio di Tony e Amelia.
Tony, nell’apprendere la verità, è disturbato; il loro mettersi in contatto è più o meno come essere investiti da un tir di sensazioni. Il suo approccio con la società è parziale e limitato alla parte negativa.
Amelia, invece, vede la società, si può dire, nella sua totalità e la racconta per quello che è. La sua “noia”, così, può essere intesa come un disaccordo con quello che la circonda e una ferrea volontà di parlare del marcio e dei problemi.

lunedì 5 aprile 2010

Lo strano caso del Dr. Venice e di Mr. Florence


Ora … il giochino di lunedì scorso era un divertissement ma non era totalmente fine a se stesso.
Purtroppo forse sarebbe stato più divertente avere un maggior numero di lettori, e magari chiedendovi di rispondere via email. La prossima volta – se ci sarà – farò così. Fattostà che si, la risposta di senility [e anche di altri, ma lui ha risposto per primo] è quella esatta.
Cosa ci fanno delle gondole nell’Arno?
Ma anche, cosa ci fa Ponte Vecchio (con tanto di edifici circostanti) a Venezia?
Misteri del fumetto. Probabilmente quella che abbiamo visto in Batman 665 è una realtà alternativa della Terra e Bruce Wayne può permettersi di passeggiare su Ponte Vecchio e al contempo trovarsi a Venezia.
Forse ce l’ha fatto portare lui perché è fottutamente ricco e le Wayne Industries sono maledettamente potenti e influenti al punto da poter scardinare Ponte Vecchio e l’Arno (non so come ma loro potrebbero farlo, troverebbero un modo) e trapiantarlo a Venezia.
O forse ancora ha acquisito il dono dell’ubiquità, oppure ha imparato a muoversi nel Bleed con una maestria che la sua percezione di due località differenti in cui si trova vengono a coincidere nella sua rappresentazione.

Oppure è un errore grossolano e totalmente superficiale di Kubert. O di Morrison, ma trovo difficile che abbia mandato a Kubert una foto di Ponte Vecchio dicendogli “qua mettimi questo ponte”. Quindi a naso darò la colpa a Kubert, anche se non mi è ben chiaro quello che è successo, dal momento che Googlando “bridge + venice” non esce fuori alcuna foto di Ponte Vecchio.
Magari era convinto che fosse a Venezia e ha cercato direttamente una foto del ponte … o magari è andato a memoria, ma dubito visto che gli spazi degli edifici sono troppo precisi.

Nell’era di internet è possibile avere accesso a un’immagine di qualsiasi cosa, ogni luogo, palazzo, ambiente o spazio è visibile a qualsiasi persona in grado di connettersi.
Google map, Google Earth, Google streetview. Devo aggiungere altro?
Nell’era di internet tutti sanno di tutto, eppure l’errore è sempre dietro l’angolo.
Non mi è chiaro come mettere insieme tutte queste cose, non so come intrecciarle e dove puntare il dito, dove bisturare e cosa esporre alla luce come cuore di ciò che mi sembra un tremendo errore concettuale.
La faccio troppo grossa? Spero di no. E prima che qualcuno mi tacci di eccessivo nazionalismo, perché non è questo il punto: credo che questo pezzo ci sarebbe stato anche se la tavola avesse mostrato carri armati a Trafalgar Square con scritto in didascalia “Moscow”. E magari ce ne sono stati cento altri in passato di cui non mi sono accorto e per i quali avrei volentieri sbottato, ma non li ho notati o ero troppo distratto o chissà cos’altro; di questo mi sono accorto e di questo parlo.
Il fatto è che io non penso che un errore talmente grossolano sia tollerabile, perché mi porta alla mente i vecchi luoghi comuni spaghetti-pizza-mandolino. A dire che di una cultura si conoscono tre cose e le si ripropone continuamente senza fare il minimo sforzo di conoscere una quarta o una quinta o una decima o una centesima. Ma nemmeno una terza e mezzo, tipo spaghetti al pesto.
E siamo ancora qui dopo… oddio dopo quanti anni? boh, comunque dopo TROPPI anni ancora andiamo avanti a luoghi comuni?
Si so che c’è un ponte molto cool che ha i negozi e da sul fiume. Secondo me era a Venezia. Non può che essere a Venezia, no? Beh allora… che diavolo, ce lo metto. E così ce lo mise. Sbagliando. (S internet – ok ammetto di non essermi strappato i capelli per cercare ma i miei dieci minuti di googlaggio ce li ho messi – non ho trovato niente in merito).
Ovviamente questa è solo una possibile ricostruzione di come possono essere andate le cose, che rimarranno oscure a meno che sia Kubert a svelarci l’arcano.

Un errore del genere è un segno di superficialità che un artista di livello internazionale non dovrebbe permettersi; è un’offesa al lettore e alla sua intelligenza, ed è l’ennesima prova di come il fumetto venga preso alla leggere anche dai professionisti.
È la faccia di quella fetta di fumetto che nasce dalla volontà di sensazionalismo. Un personaggio come Bruce Wayne deve necessariamente stupire, perché è sfondato di soldi e tutto il resto, ed è la sua stessa identità civile che necessita di avere un taglio frivolo e dispendioso. Uno modo efficace per dare questa idea è farlo viaggiare – viaggi di piacere, s’intende – un sacco anche all’interno di un singolo arco narrativo, giusto per spezzare.
Ma se spettacolarizzazione ed “esotismo” (o “estero”, per farla più semplice) vanno a braccetto, se per forza si vuole mettere sul piatto qualcosa di cui non si ha esperienza diretta (e in questo caso potrei affermare senza molti dubbi che non c’è stata) allora non lo si può fare alla leggera, o il risultato sarà un’inevitabile caduta di stile.

Non chiedo una storia che sia in tutto e per tutto reale, ma che sia realistica laddove l’intento grafico-narrativo di una sequenza ricerca un carattere realistico. Perché spingere fino a fondo il pedale del realismo e riportare sulla pagina una struttura architettonica in maniera quasi perfetta e poi sbagliare totalmente la sua collocazione?

Dopo più di cento anni di fumetto possiamo permetterci di fare le cose alla carlona?