giovedì 25 febbraio 2010

Tsubasa RESERVoir CHRoNiCLE

Dopo la "svisata shonen" (cfr. Maconi [2010]) arriva a questo giro la "svisata shojo".
Tra i tanti shojo attualmente pubblicati uno dei pochi che non mi sembra una fotocopia di cose già viste è Tsubasa RESERVoir CHRoNiCLE, realizzato dallo studio CLAMP.

Lo studio CLAMP negli ultimi vent'anni è diventato (salvo eccezioni) un marchio di fabbrica che garantisce qualità ai lettori di shojo e non solo, per la capacità di realizzare storie in grado di attirare anche un pubblico di lettori con gusti differenti. Le CLAMP spaziano così tra il fantasy canonico (Magic Knight Rayearth) e quello mistico (RG Veda), il fantascientifico "domestico" (Angelic Layer, Chobits) e quello apocalittico (X 1999), dal mistery-horror (Tokyo Babylon, XXXholic) al simil-quotidiano (Lawful Drugstore).

Voglio soffermarmi su Tsubasa RESERVoir CHRoNiCLE a questo giro, perchè mi è sembrato un esperimento curioso. Tsubasa ruota attorno ai viaggi dimensionali e subito mi è sembrato interessante per due motivi:1. prende i personaggi delle CLAMP e li riutilizza, adattandoli a nuove situazioni, nuove storie, nuove ambientazioni; 2. per quanto la narrazione segua lo stile narrativo orientale, ha una stuttura fortemente occidentale - o meglio ha una struttura fortemente da comic book, nel momento in cui viene ad intrecciarsi, di tanto in tanto, con l'altro manga che lo studio di mangaka realizzava in contemporanea, XXXholic, la cui realtà è punto di partenza e pretesto per le avventure di Tsubasa (ma questa non è una novità, anche se accade molto di rado; chi si ricorda il crossover tra Dragonball e Dr. Slump & Arale).

La trama non è originalissima: Sakura e Shaoran (da Card Captor Sakura, ma differenti) arrivano da Yuka (per l'appunto uno dei protagonisti di XXXholic), la quale, per salvare la ragazza, costruisce un gruppo di cronoviaggiatori (ai due si aggiungeranno un guerriero privato della spada, Kurogane, e un mago privato della magia, Faye, oltre a Mokona, strano essere a forma di polpetta creato sulle pagine di Magic Knight Rayearth) e lo manda alla ricerca di piume che contengono i ricordi della ragazza, perse tra le varie dimensioni. Inizia così un viaggio che, tra alti e bassi, colpi di scena o presunti tali, durerà 28 numeri (è di prossima conclusioneo anche in Italia).

Come detto prima, uno dei punti di forza della serie, a mio avviso, è il riuso di certi personaggi, talvolta in modo fedele alla loro psicologia, talvolta in modo puramente funzionale alla trama. Si crea così una specie di cultura del riuso all'interno di una tradizione manga ben attestata come quella che è la produzione a fumetti dello studio CLAMP. Una simile operazione è totalmente occidentale, per non dire statunitense (tanto piena di riletture e universi alternativi, senza contare alcune copie fin troppo esplicite create da un'editori concorrenti) e molto si discosta dalla logica della produzione nipponica. Quindi, occidentale nell'idea, nella strutturazione a trame incrociate con altre opere. La scelta dei personaggi su cui strutturare il gruppo mi fa ancora una volta pensare al Viaggio verso Occidente, ma a lungo andare potrebbe anche essere un'esagerazione. Ciò non toglie che, guardacaso, i tratti del protagonista giovane/sprezzante, dal grande potenziale e pronto a infrangere le regole continuano a farmi pensare allo scimmiotto.

Quale può essere la motivazione di una scelta simile? Negli USA le varie riprese servono il più delle volte a svecchiare personaggi che hanno già sulle spalle dai trenta ai cinquanta anni di pubblicazione; le motivazioni narrative sono secondarie, spesso è ben più probabile che la finalità sia economica e volta ad attirare nuovo pubblico presentando personaggi 1. più "nuovi" / più giovani e quindi più vicino ai giovani di oggi(le varie teen version, le riprese delle origini, o una serie come Ultimate Spiderman), 2. più accattivanti (come fu, ad esempio la linea 2099 della Marvel Comics) o 3. più attuali (ad esempio i vari passaggi di ruolo in DC Comics).Per una serie come Tsubasa, invece, una simile motivazione è impensabile, dal momento che i personaggi considerati provengono da serie già concluse e che non hanno più di vent'anni.

Si può inoltre ricondurre l'operazione ad un fenomeno sociale tipicamente nipponico. Si potrebbe scomodare una lettura della società giapponese frammentata all'interno delle pagine di Tsubasa, all'interno della quale l'intersezione tra idiosincrasie ed eccesso di regolamentazione detonano una forma di totale schizofrenia sociale. Si potrebbe ma è solo una possibile interpretazione, le autrici non si sono espresse in merito e, per quanto sia possibile (poco ma possibile) che sia una lettura inconsciamente voluta sembra molto poco probabile. Proporre una simile lettura senza avere uno straccio di prove sembra un po' forzato (anche se, ripeto, è una lettura possibile); tuttavia è interessante se considerata in relazione alla realtà del cosplaying, che nasce, si sviluppa ed ha il suo maggiore punto di applicazione all'interno dei confini nipponici. I personaggi di Tsubasa (siano essi protagonisti o personaggi secondari) sembrano cosplayer di personaggi mai visti, o attori su un palco. Tutta la questione sembra quindi spostarsi sul piano dell'identità, dei personaggi così come dei lettori, del paese. Nuova identità? Identità perduta? O, addirittura, su un piano ancora superiore, assenza di identità?

venerdì 12 febbraio 2010

Naruto (ebbene sì...)

La concezione dello shonen-manga è sempre stata piuttosto manichea. I buoni contro i cattivi. Ogni tanto c'è qualcuno che da cattivo diventa buono e, viceversa, da buono diventa cattivo. Raramente abbiamo figure dalla personalità "grigia", in grado di collocarsi nel mezzo delle due fazioni.
Penso alle principali serie di questo filone, da Dragonball a una qualsiasi serie shonen del momento, non necessariamente fantastica/fantasy/fantascientifica, anche di setting realistico, e senza scordare alcuni seinen che ammiccano più al pubblico giovane che a quello adulto.

Naruto non fa eccezione. I buoni, i cattivi, ogni tanto qualcuno passa da una parte o dall'altra, oppure fa l'infiltrato; ad eccezione di un personaggio come Itachi Uchiha tutti i personaggi sono o bianchi o neri, oppure passano da bianchi a neri (es. Sasuke) e viceversa(es. Gaara); è una considerazione abbastanza sommaria ma non mi viene in mente nessun'altro. Non intendo qui erigere una difesa in favore di Naruto. Come tutti gli shonen (o perlomeno una parte... diciamo che lo metto in questa parte) ha i suoi pro e i suoi contro; tra questi ultimi il più evidente resta sempre la strutturazione - di tipo puramente videoludico - storia-rissa-storia-rissa ad libitum, che vedono il protagonista (a ben vedere c'è un vero protagonista? è la percentuale di apparizione sufficiente a definire Naruto protagonista? il fatto che sia l'eponimo della serie è sufficiente a definirlo protagonista?) e i suoi amici scontrarsi con avversari sempre più forti e accrescere le proprie tecniche e la propria potenza sempre e comunque di quella minima percentuale funzionale a sconfiggere il nemico.

Ho iniziato a leggere Naruto per puro caso; inizialmente non ero per niente convinto, ma l'idea di un manga sui ninja mi attirava parecchio, così decisi di dargli una possibilità; allora ero molto meno selettivo, devo ammetterlo, ma forse in certi momenti è un bene: ci si fa un'idea, aiuta a capire, in seguito, come valutare un prodotto artistico/narrativo.
La base della storia è di sicuro qualcos'altro, e su questo credo che ormai nello shonen sia una buona cosa: una base solida permette di configurare in breve tempo i personaggi e i primi eventi, potendosi concentrare del tutto a come sviluppare la trama in modo originale... ammesso di riuscirci. Del resto il nucleo di personaggi principali degli shonen manga è spesso preso di sana pianta e adattato dal Viaggio in Occidente, romanzo cinese della fine del XVI secolo, tradizionalmente attribuito a Wu Cheng'en.
Di tanto in tanto, tuttavia, è possibile trovare accadimenti, soluzioni narrative (non parlo di quelle grafiche perchè è una questione di gusti), scelte che mi portano a pensare che nonostante la serie stia inevitabilmente venendo prolungata dal grande successo in patria (e non solo) e che fu lo stesso autore, numeri e numeri addietro, a lamentare di non avere tanto idea di dove andare a parare, nonostante tutto questo penso che Masashi Kishimoto abbia una buona testa. Di tanto in tanto.

La prima volta che mi capitò di pensare che Naruto potesse essere salvato dalla selva degli shonen omologati fu leggendo il numero 43, in cui Kishimoto decise di raccontare la vera storia di Itachi Uchiha, il perchè delle sue motivazioni e del suo comportamento, capovolgendo - ma in modo sensato e tutto sommato "elegante" - l'idea che ci si era fatti di lui fin dalla sua introduzione. Se riesce a fare qualcosa del genere - pensai - a meno che sia una formidabile botta di culo dovrebbe potersi svincolare dagli stilemi classici e scrivere belle storie. E allora perchè si paralizza sulla solita struttura ascendente?

Il secondo punto di svolta fu, in realtà, alcuni numeri prima. Con la morte del terzo Hokage prima e di Jiraya poi, Kishimoto minava l'impianto dei personaggi, togliendo di mezzo un personaggio secondario ma di netta importanza, e uno che di fatto si può considerare principale. La cosa si è fatta ancora più forte nel numero 54, quando per mano di Pain cade anche Kakashi, una delle colonne portanti della serie. Insomma, a meno che l'autore decida di operare svolte di cattivo gusto come misteriosi ritorni, resurrezioni (per non parlare di doppi alternativi, versioni provenienti da altri segmenti spaziotemporali e cloni, che fortunatamene sono prerogative tutte statunitensi) o che altro, sembra proprio che il buon Masashi abbia deciso di espiare alla merda pestata nei primi numeri (mi pare fosse il cinque, ma non ci giurerei), quando Sasuke Uchiya, contro ogni evidenza, non muore benchè il suo corpo sia trafitto da aghi in ogni dove.

Il terzo punto di svolta è la visione che egli riesce a dare del piano dell'associazione Alba nelle pagine dell'ultimo tankobon italiano. Il discorso che Pain fa a Naruto per giustificare l'attentato esplosivo che ha raso al suolo il villaggio della foglia, descrive Alba come un'organizzazione che è disposta a sacrificare la pace di pochi in favore della pace di molti. Possibile dunque che Kishimoto si rifaccia, per la concezione di Alba - di cui fino al numero scorso non sapevamo niente se non che ce l'avevano con la Foglia e che stavano cercando di catturare tutte le forze portanti - all'ultimo decennio di terrorismo internazionale? Per minare l'equilibrio dei cinque paesi, infatti, diversi sono i tentativi di Alba, tra cui l'attentato che fa esplodere l'intero Villaggio della Foglia. I burattini che Pain richiama durante i combattimenti, infine, si comportano in modo (ovviamente) da anteporre il bene di Pain (e dunque della causa di Alba) alla loro "sopravvivenza", se così si può far riferimento alla loro forma di vita artificiale. Da tutti questi elementi Alba prende quindi l'aspetto di un'organizzazione che si è imbarcata in una crociata, se non religiosa quantomeno "morale".

Ok, ora potete raddrizzare i nasi che avete storto e ritornare a fare gli intellettuali sull'ultima bravata di qualche autore "d'essai", oppure tirare due asciate alla vostra porta di pregiudizio e iniziare a guardare un po' dentro le cose.

venerdì 5 febbraio 2010

BACCHUS

BACCHUS
Sceneggiatura e disegni di Eddie Campbell.


Bacchus è un dio ormai alla fine della corsa, vecchio, rugoso, guercio, stanco. Gira con i suoi amici, racconta storie, si ubriaca, vive avventure che spaziano da quella straordinaria a quella più comune. Niente di più.
Bacchus è il punto di svolta della produzione fumettistica di Eddie Campbell, oltre ad esserne il massimo e forse unico momento metafisico. Giunto da un personaggio come Alec e in attesa di dare vita al Sir William Gull mooriano di From Hell, che può venire considerato come il gradino (benché cronologicamente successivo) dal quotidiano al metafisico all’interno di quanto fino ad allora narrato dall’autore scozzese, Bacchus proviene dalla volontà di una svolta cosmica del quotidiano.

A detta dello stesso Campbell, Bacchus nasce da una necessità ben concreta: fare soldi; necessità insoddisfatta, oltretutto, che si concretizzerà solo con From Hell, il cui successo tirerà in barca tutto quello realizzato in precedenza, tra cui lo stesso Bacchus. Campbell aveva ben compreso già negli anni Ottanta che, per quanto buono potesse essere una storia a fumetti basata esclusivamente sulla quotidianità, l’eccesso di biografiamo e l’assenza di un filtro, avrebbe squalificato di molto la storia, ostacolandone i due principali risultati: 1. attirare lettori per 2. poter far guadagnare al suo autore un mucchio di soldi.
Per fare questo ecco quindi che l’autore puntò a qualcosa di più grande, cosmico e mitologico. Estrasse così dal cilindro un micropantheon di divinità e semidei, nel concreto Bacco, Ermes, Teseo e il bizzarro Joe Pupilla, individuo deforme dalle molteplici paia di occhi, colpevole di aver ucciso Zeus dopo averlo privato del suo controllo sulle saette. Benché una serie di racconti brevi non manchi di farci conoscere e di mettere in scena le altre divinità greco-romane, Bacchus ruota attorno a queste figure, riducendo l’aspetto divino esperibile al dio della baldoria e al messaggero/guerrigliero degli dei, cui si aggiungono un avventuriero e uno squilibrato assassino. Così facendo, Campbell compie qualcosa di narrativamente molto potente, sbattendo in faccia al mondo occidentale un concreto vuoto valoriale. Causa di questo vuoto è il disfacimento della società che, come vuole Eric Hobsbawm, parte dal crollo economico del ’73 – e portando sulle spalle tutte le problematiche socio storiche, economiche e culturali provenienti dalla situazione storica preesistente – non trova mai una vera e propria risoluzione, continuando a precipitare su se stessa.
Il fatto che le uniche due divinità disponibili siano legate, tutto sommato, a dissoluzione e violenza, sembrerebbe voler indicare che queste sono le uniche due cose cui la società moderna sceglie di essere devota; ovviamente qualcuno potrebbe etichettare tutto ciò come una semplice teoria campata per aria… certo è che spesso certi processi poietici della narrazione non sono nemmeno totalmente volontari.
Eppure dovendo scegliere due dei da “salvare” Campbell opta per quelli più concreti e “quotidianizzabili”, creando così una commistione di quotidiano e straordinario, banale ed eccezionale, che si rifletterà nel fumetto angloamericano per gli anni a venire, si pensi tra tutti al Sandman di Neil Gaiman o, in modo traslato ma forse ancora più evidente, al Preacher di Garth Ennis, laddove dissoluzioni di ogni tipo sono trapiantate su materiali teologici di matrice cristiana.

Due parole meritano di essere spese sullo stile grafico dell’autore, uno stile grezzo, all’apparenza poco curato ma che nasconde al di sotto le vere potenzialità dell’autore. Accosta un tratto accurato a uno più sporco, quasi disinteressato al risultato eppure, al contempo, interessato all’idea che il risultato possa apparire come qualcosa di disinteressato. Campbell, il cui stile si dimostra in grado di variare da opera a opera, agli esordi è il tipico stile da comic books inglese. Quello, per dire, che si può trovare negli autori Vertigo della prima ora, come John Ridgway, John Totleben o Stephen Bissette; autori che arrivano al fumetto passando per l’immaginario delle riviste illustrate inglesi, o per le incisioni, il cui potenziale si esprime massimamente nel bianco e nero, e non nel colore; che è poi il problema per cui, ad esempio, le tavole di Hellblazer realizzate da Ridgway risultano mortalmente noiose, sbattute e appiattite da una colorazione che ne ammazza le trame. Allo stesso modo Campbell riesce, con pochi tratti di penna, a dare spessore e senso di completezza alla figura, semplificando uno stile pittorico (di cui peraltro dimostra di riuscire a padroneggiare con gran maestria sulle pagine di The Black Diamond Detective Agency) così da farlo rientrare all’interno del circuito della sequenzialità.
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Bibliografia:
Bacchus vol. 1 – L’Immortalità non è per sempre, Edizioni BD, brossurato, 96 pagine in bianco e nero, € 9.50.
Bacchus vol. 2 – Gli Dei del business, Edizioni BD, brossurato, 96 pagine in bianco e nero, € 9.50.
Bacchus vol. 3 – In giro per le isole con Bacchus, Edizioni BD, brossurato, 176 pagine in bianco e nero, € 15.00.
Bacchus vol. 4 – Terra, acqua, aria, fuoro, Edizioni BD, brossurato, 176 pagine in bianco e nero, € 15.00.
Bacchus vol. 5 – Le Mille e una notte di Bacchus, Edizioni BD, brossurato, 128 pagine in bianco e nero, € 12.50.
Bacchus vol. 6 – Il Ritratto di Dorina Gray, Edizioni BD, brossurato, 176 pagine in bianco e nero, € 15.00.
Bacchus vol. 7 – Bacchus re, Edizioni BD, brossurato, 128 pagine in bianco e nero, € 15.00.
Bacchus vol. 8 – Sipario, Edizioni BD, brossurato, 160 pagine in bianco e nero, € 13.00.