BATTLE ROYALE nr. 1-2 (2000; edizione italiana 2009, Panini Comics, 208 pagine in bianco e nero).
Sceneggiatura di Kōshun Takami, disegni di Masayuki Taguchi.
Ritorna per Panini un classico del manga di inizio millennio, pietra miliare nonché capostipite del nuovo filone di manga iperviolenti. Attenzione però, iperviolenti ma in cui, tuttavia, la violenza è finalizzata e non è mai (del tutto) fine a se stessa.
Già dalla prima pagina ci vengono fornite tutte le notizie necessarie a ricostruire il setting di una delle storie più deviate di inizio millennio: nella Grande Repubblica dell’Estremo Oriente, paese militarizzato e autarchico, in contrasto con gli Stati Uniti e, di fatto, il resto del mondo, il governo ha forzato la mano sulla vita della popolazione. Culmine di questa politica è il “Program”, una sorta di gioco sadico che interessa le terze medie della Repubblica: ogni anno la classe ritenuta più indisciplinata viene selezionata e i suoi studenti vengono abbandonati su un’isola sorvegliata e sono costretti ad uccidersi tra loro fino a che non ne rimane uno solo, il vincitore.
È un giorno come un altro quando i quarantadue studenti della terza B della scuola media comunale di Shirowa (Kagawa) si risvegliano in una classe che non è quella in cui solitamente fanno lezione. Ad accoglierli c’è Yonemi Kamon, individuo che risulta immediatamente disgustoso, che si presenta come nuovo responsabile della classe. Ad ogni studente viene consegnata una sacca contenente cibo, acqua, una mappa della zona, una bussola, un orologio e, soprattutto, un’arma. Chi si oppone o crea fastidi viene immediatamente eliminato. Ha così inizio, per loro, l’incubo del Program, che passerà sopra ad ogni amicizia, creerà nuovi legami di opportunità e instillerà. Questo non sembra andare a genio a Shuya Nanahara che, nonostante la coralità della storia, rivela già dal primo numero di rivestire una posizione leggermente più protagonista degli altri: il ragazzo, a differenza di molti suoi compagni, cercherà da subito di escogitare un piano di fuga coinvolgendo i suoi compagni e opponendosi al regolamento che vuole un solo vincitore. Ma i suoi compagni non sembrano tutti dello stesso avviso.
Molti sono gli elementi di Battle Royale da tenere in considerazione, benché il manga pecchi, come molta della produzione nipponica, nel dare maggiore importanza alla coralità del mondo in cui viene narrata la storia piuttosto che a un personaggio protagonista forte, come è nella maggior parte del fumetto europeo o statunitense.
La prima cosa da tenere in considerazione è il legame con la situazione sociopolitica giapponese, che da sempre viene presentata nei manga come una regolamentazione della vita umana troppo rigida e classista. Queste considerazioni aumentano a seguito di gravi scandali politici nei primi anni Settanta, che portano ad un sostanziale clima di sfiducia nel governo, sfiducia che pare essere ancora viva e nemmeno troppo mascherata nelle pagine del tandem Takami-Taguchi. Da sempre infatti, nei manga, laddove si prenda in considerazione un governo dalle connotazioni eccessive (ancor di più se il riferimento a quello giapponese è evidente e allo stesso tempo volutamente mascherato), il motivo scatenante è la denuncia di una società fortemente gerarchizzata e asservita, le cui norme e abitudini vengono percepite come limitanti delle libertà personali. L’uso sfacciato di una violenza così efferata (solo nel primo numero si assiste ad uno stupro, un colpo di pistola a bruciapelo in faccia con asportazione di parte della mandibola e della lingua, un colpo di pistola a bruciapelo nella testa, un altro in una gamba, due studenti con la testa trapassata da una freccia, una ragazza sgozzata con un falcetto, una ragazza pugnalata in fronte) accentua il senso di erroneità di questi eccessi normativi attraverso la provocazione e allo sconvolgimento del lettore.
Altro elemento di fondamentale importanza, collegato al primo, è come il contesto alteri le relazioni umane. I ragazzi si ritrovano a dubitare l’uno dell’altro, e questo giova ad alcuni ed è la rovina di altri; certo c’è chi si oppone e si associa per ribellarsi alla crudeltà priva di senso del Program, ma sicuramente c’è anche chi si stringe attorno al più forte per trarne vantaggi e appoggio nell’eliminare gli altri compagni, in attesa della resa dei conti finale. È forte, in questo senso, la critica alla competitività che il Giappone impone in ogni settore della vita sociale, dalla scuola, al lavoro, allo sport.
Questo ci porta al terzo aspetto cardine della serie: la fiducia. È importante tenere a mente che in Giappone le classi vengono riformate ogni anno, rimescolando tra loro gli studenti dello stesso anno, per cui non è detto che dopo tre anni la classe possieda un solido affiatamento. Questa è la maggiore causa di ombre nella fiducia degli studenti della terza B, come emerge dai pensieri di Shuya nel tentativo di individuare di chi potersi fidare e da chi guardarsi.
Una sola considerazione relativa ai disegni di Masayuki Taguchi, disegni tradizionalmente ascrivibili allo stile grafico classico del fumetto orientale, ricchi di pose plastiche assurde il cui uso è sostanzialmente funzionale a creare enfasi nella tensione narrativa. Nonostante una certa uniformità alle tendenze grafiche del sol levante, tuttavia, è lodevole (ma sarebbe stato stupido il contrario) il non assomigliarsi dei quarantadue studenti non solo grazie ad accessori ed espedienti comportamentali, ma anche e soprattutto per le fisionomie e l’espressività del volto. Tradizionali sono, invece, la gestione delle tavole, la gestione delle scene d’azione e le tipologie di studenti “negligenti”, dal musicista (il cui ruolo negativo è dovuto al bando sulla musica rock come avversione alla cultura americana), allo sportivo-playboy, dal lottatore allo yakuza e quant’altro la tradizione manga ci abbia mai insegnato in fatto di studenti scapestrati.
Battle Royale è una buona critica, forse una delle migliori, ad una società che si sta perdendo, esplosa e frammentata all’interno di un recinto, deviata dalle proprie regole, una società che si sta perdendo per strada, nelle spire di megalopoli avanguardistiche in cui ammassamento non è altro che un sinonimo di isolamento e la norma un giogo troppo stretto e pesante.
Sceneggiatura di Kōshun Takami, disegni di Masayuki Taguchi.
Ritorna per Panini un classico del manga di inizio millennio, pietra miliare nonché capostipite del nuovo filone di manga iperviolenti. Attenzione però, iperviolenti ma in cui, tuttavia, la violenza è finalizzata e non è mai (del tutto) fine a se stessa.
Già dalla prima pagina ci vengono fornite tutte le notizie necessarie a ricostruire il setting di una delle storie più deviate di inizio millennio: nella Grande Repubblica dell’Estremo Oriente, paese militarizzato e autarchico, in contrasto con gli Stati Uniti e, di fatto, il resto del mondo, il governo ha forzato la mano sulla vita della popolazione. Culmine di questa politica è il “Program”, una sorta di gioco sadico che interessa le terze medie della Repubblica: ogni anno la classe ritenuta più indisciplinata viene selezionata e i suoi studenti vengono abbandonati su un’isola sorvegliata e sono costretti ad uccidersi tra loro fino a che non ne rimane uno solo, il vincitore.
È un giorno come un altro quando i quarantadue studenti della terza B della scuola media comunale di Shirowa (Kagawa) si risvegliano in una classe che non è quella in cui solitamente fanno lezione. Ad accoglierli c’è Yonemi Kamon, individuo che risulta immediatamente disgustoso, che si presenta come nuovo responsabile della classe. Ad ogni studente viene consegnata una sacca contenente cibo, acqua, una mappa della zona, una bussola, un orologio e, soprattutto, un’arma. Chi si oppone o crea fastidi viene immediatamente eliminato. Ha così inizio, per loro, l’incubo del Program, che passerà sopra ad ogni amicizia, creerà nuovi legami di opportunità e instillerà. Questo non sembra andare a genio a Shuya Nanahara che, nonostante la coralità della storia, rivela già dal primo numero di rivestire una posizione leggermente più protagonista degli altri: il ragazzo, a differenza di molti suoi compagni, cercherà da subito di escogitare un piano di fuga coinvolgendo i suoi compagni e opponendosi al regolamento che vuole un solo vincitore. Ma i suoi compagni non sembrano tutti dello stesso avviso.
Molti sono gli elementi di Battle Royale da tenere in considerazione, benché il manga pecchi, come molta della produzione nipponica, nel dare maggiore importanza alla coralità del mondo in cui viene narrata la storia piuttosto che a un personaggio protagonista forte, come è nella maggior parte del fumetto europeo o statunitense.
La prima cosa da tenere in considerazione è il legame con la situazione sociopolitica giapponese, che da sempre viene presentata nei manga come una regolamentazione della vita umana troppo rigida e classista. Queste considerazioni aumentano a seguito di gravi scandali politici nei primi anni Settanta, che portano ad un sostanziale clima di sfiducia nel governo, sfiducia che pare essere ancora viva e nemmeno troppo mascherata nelle pagine del tandem Takami-Taguchi. Da sempre infatti, nei manga, laddove si prenda in considerazione un governo dalle connotazioni eccessive (ancor di più se il riferimento a quello giapponese è evidente e allo stesso tempo volutamente mascherato), il motivo scatenante è la denuncia di una società fortemente gerarchizzata e asservita, le cui norme e abitudini vengono percepite come limitanti delle libertà personali. L’uso sfacciato di una violenza così efferata (solo nel primo numero si assiste ad uno stupro, un colpo di pistola a bruciapelo in faccia con asportazione di parte della mandibola e della lingua, un colpo di pistola a bruciapelo nella testa, un altro in una gamba, due studenti con la testa trapassata da una freccia, una ragazza sgozzata con un falcetto, una ragazza pugnalata in fronte) accentua il senso di erroneità di questi eccessi normativi attraverso la provocazione e allo sconvolgimento del lettore.
Altro elemento di fondamentale importanza, collegato al primo, è come il contesto alteri le relazioni umane. I ragazzi si ritrovano a dubitare l’uno dell’altro, e questo giova ad alcuni ed è la rovina di altri; certo c’è chi si oppone e si associa per ribellarsi alla crudeltà priva di senso del Program, ma sicuramente c’è anche chi si stringe attorno al più forte per trarne vantaggi e appoggio nell’eliminare gli altri compagni, in attesa della resa dei conti finale. È forte, in questo senso, la critica alla competitività che il Giappone impone in ogni settore della vita sociale, dalla scuola, al lavoro, allo sport.
Questo ci porta al terzo aspetto cardine della serie: la fiducia. È importante tenere a mente che in Giappone le classi vengono riformate ogni anno, rimescolando tra loro gli studenti dello stesso anno, per cui non è detto che dopo tre anni la classe possieda un solido affiatamento. Questa è la maggiore causa di ombre nella fiducia degli studenti della terza B, come emerge dai pensieri di Shuya nel tentativo di individuare di chi potersi fidare e da chi guardarsi.
Una sola considerazione relativa ai disegni di Masayuki Taguchi, disegni tradizionalmente ascrivibili allo stile grafico classico del fumetto orientale, ricchi di pose plastiche assurde il cui uso è sostanzialmente funzionale a creare enfasi nella tensione narrativa. Nonostante una certa uniformità alle tendenze grafiche del sol levante, tuttavia, è lodevole (ma sarebbe stato stupido il contrario) il non assomigliarsi dei quarantadue studenti non solo grazie ad accessori ed espedienti comportamentali, ma anche e soprattutto per le fisionomie e l’espressività del volto. Tradizionali sono, invece, la gestione delle tavole, la gestione delle scene d’azione e le tipologie di studenti “negligenti”, dal musicista (il cui ruolo negativo è dovuto al bando sulla musica rock come avversione alla cultura americana), allo sportivo-playboy, dal lottatore allo yakuza e quant’altro la tradizione manga ci abbia mai insegnato in fatto di studenti scapestrati.
Battle Royale è una buona critica, forse una delle migliori, ad una società che si sta perdendo, esplosa e frammentata all’interno di un recinto, deviata dalle proprie regole, una società che si sta perdendo per strada, nelle spire di megalopoli avanguardistiche in cui ammassamento non è altro che un sinonimo di isolamento e la norma un giogo troppo stretto e pesante.
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