«Per tutta la vita, ho combattuto per diventare un simbolo. Un simbolo per tutte le cose giuste di questo paese, tutte le cose che amavo. E ora stanno cercando di trasformare quel simbolo in qualcosa di conveniente, che possa servire al meglio il programma politico dell’uno o dell’altro schieramento. Li sento parlare senza sosta… i media, la stampa… Non capiscono. Non ha mai riguardato la politica o me in particolare. Riguardava il paese. Ha sempre riguardato il paese. Ma loro non sentono quella verità al di sopra della loro voce.»
Quello che sembra un monologo è in realtà parte di una lunga conversazione tra Thor e Capitan America, tenutasi sul numero 11 di Thor (in Italia su Thor e i nuovi vendicatori 123, giugno 2009) ed è una delle cose che più mi ha colpito delle uscite di giugno.
La situazione è a dir poco ieratica: davanti alla statua di Cap, Thor evoca lo spirito dell’amico e compagno di tante battaglie che gli appare, spettrale, al centro di una concentrazione di ceri, fiori e biglietti. Un fantasma azzurro sul cui petto la stella bianca sembra un faro da tanto brilla. I due non si incontravano dal 2004, da prima di Avengers: Disassembled!, cui il dio del tuono non partecipò perché impegnato a combattere su Asgard durante il Ragnarok. Poi Thor morì. I Vendicatori si sciolsero. Si formarono i Nuovi Vendicatori. Ci fu l’atto di registrazione dei superumani, la guerra civile. Poi morì Capitan America e, di lì a poco, rinacque Thor e Bucky, storica spalla degli anni Quaranta, divenne la nuova bandiera vivente.
All’epoca di A Visit, questo il titolo della storia di cui si sta parlando, le elezioni americane non si erano ancora tenute, e si era anzi in piena campagna. Di qui la strumentalizzazione della figura del capitano nelle pagine successive quando, ad un talk show, ci si chiede per quale candidato avrebbe votato, con “esperti” e “studiosi” della bandiera vivente.
Ha sempre riguardato il paese.
La strumentalizzazione di un simbolo che riguarda la collettività da parte di una parte politica è di per sé un errore. A maggior ragione considerando che il suo legame con la collettività è ben più che qualcosa di superficiale, ma è qualcosa di profondamente intrinseco.
Durante la seconda guerra mondiale gli editori di fumetti americani andavano in cerca di qualcosa su cui poter catalizzare l’attenzione e il patriottismo della popolazione. Un simbolo di tale portata, raffigurato nello scontro con il nemico di allora, si rivestiva allora di tutto un set di significati propri del paese, a partire (e questo lo possiamo dire col senno di poi) dal ruolo fondamentale degli Stati Uniti per il concludersi del conflitto. Una figura come quella di Capitan America incarnava il sogno democratico che si ergeva a difesa del vecchio mondo, minacciato dal pericolo dei totalitarismi; fungeva inoltre da supporto per il morale dei soldati al fronte, e da ispirazione per i giovani americani.
Poi vennero le guerre “imperialiste” e la bandiera vivente rimase in panchina, assieme agli altri eroi, perché non si addice a un simbolo di combattere una guerra sbagliata. Piano piano la figura di Capitan America si fece più introversa, trasferendosi dai campi di battaglia ai nuovi sentieri di guerra: le strade delle metropoli, in cui le battaglie combattute erano, se si vuole, ben peggiori di quelle combattute con le armi da fuoco. Erano il disprezzo, l’odio e l’indifferenza ad alimentare il nuovo male sociale, le discriminazioni razziali, culturali, sessuali, la droga, la criminalità organizzata. Arrivò addirittura un punto in cui Steve Rogers, che, non bisogna dimenticarlo, rimane pur sempre un soldato, decise di prendere le distanze dal governo statunitense e “mettersi in proprio”. Fondamentale, per il suo credo, era servire alla popolazione, non servire il governo. In tutti questi anni la figura di Capitan America ha sempre incarnato una visione tipicamente primonovecentesca dell’America, anche qualora la realtà del paese si discostasse da essa, e questo proprio perché non ha mai riguardato la politica ma ha sempre riguardato il paese.
La figura di Cap è sempre stata equiparabile a quella di un generale cui tutti davano ascolto e da cui tutti traevano ispirazione, anche i personaggi più liminari come il Punitore. Eppure è stato uno di quei generali come non se ne vedono molti, uno di quelli che nella battaglia sono in prima linea sotto le bombe, e non nelle retrovie a manovrare, al sicuro.
Quello che sembra un monologo è in realtà parte di una lunga conversazione tra Thor e Capitan America, tenutasi sul numero 11 di Thor (in Italia su Thor e i nuovi vendicatori 123, giugno 2009) ed è una delle cose che più mi ha colpito delle uscite di giugno.
La situazione è a dir poco ieratica: davanti alla statua di Cap, Thor evoca lo spirito dell’amico e compagno di tante battaglie che gli appare, spettrale, al centro di una concentrazione di ceri, fiori e biglietti. Un fantasma azzurro sul cui petto la stella bianca sembra un faro da tanto brilla. I due non si incontravano dal 2004, da prima di Avengers: Disassembled!, cui il dio del tuono non partecipò perché impegnato a combattere su Asgard durante il Ragnarok. Poi Thor morì. I Vendicatori si sciolsero. Si formarono i Nuovi Vendicatori. Ci fu l’atto di registrazione dei superumani, la guerra civile. Poi morì Capitan America e, di lì a poco, rinacque Thor e Bucky, storica spalla degli anni Quaranta, divenne la nuova bandiera vivente.
All’epoca di A Visit, questo il titolo della storia di cui si sta parlando, le elezioni americane non si erano ancora tenute, e si era anzi in piena campagna. Di qui la strumentalizzazione della figura del capitano nelle pagine successive quando, ad un talk show, ci si chiede per quale candidato avrebbe votato, con “esperti” e “studiosi” della bandiera vivente.
Ha sempre riguardato il paese.
La strumentalizzazione di un simbolo che riguarda la collettività da parte di una parte politica è di per sé un errore. A maggior ragione considerando che il suo legame con la collettività è ben più che qualcosa di superficiale, ma è qualcosa di profondamente intrinseco.
Durante la seconda guerra mondiale gli editori di fumetti americani andavano in cerca di qualcosa su cui poter catalizzare l’attenzione e il patriottismo della popolazione. Un simbolo di tale portata, raffigurato nello scontro con il nemico di allora, si rivestiva allora di tutto un set di significati propri del paese, a partire (e questo lo possiamo dire col senno di poi) dal ruolo fondamentale degli Stati Uniti per il concludersi del conflitto. Una figura come quella di Capitan America incarnava il sogno democratico che si ergeva a difesa del vecchio mondo, minacciato dal pericolo dei totalitarismi; fungeva inoltre da supporto per il morale dei soldati al fronte, e da ispirazione per i giovani americani.
Poi vennero le guerre “imperialiste” e la bandiera vivente rimase in panchina, assieme agli altri eroi, perché non si addice a un simbolo di combattere una guerra sbagliata. Piano piano la figura di Capitan America si fece più introversa, trasferendosi dai campi di battaglia ai nuovi sentieri di guerra: le strade delle metropoli, in cui le battaglie combattute erano, se si vuole, ben peggiori di quelle combattute con le armi da fuoco. Erano il disprezzo, l’odio e l’indifferenza ad alimentare il nuovo male sociale, le discriminazioni razziali, culturali, sessuali, la droga, la criminalità organizzata. Arrivò addirittura un punto in cui Steve Rogers, che, non bisogna dimenticarlo, rimane pur sempre un soldato, decise di prendere le distanze dal governo statunitense e “mettersi in proprio”. Fondamentale, per il suo credo, era servire alla popolazione, non servire il governo. In tutti questi anni la figura di Capitan America ha sempre incarnato una visione tipicamente primonovecentesca dell’America, anche qualora la realtà del paese si discostasse da essa, e questo proprio perché non ha mai riguardato la politica ma ha sempre riguardato il paese.
La figura di Cap è sempre stata equiparabile a quella di un generale cui tutti davano ascolto e da cui tutti traevano ispirazione, anche i personaggi più liminari come il Punitore. Eppure è stato uno di quei generali come non se ne vedono molti, uno di quelli che nella battaglia sono in prima linea sotto le bombe, e non nelle retrovie a manovrare, al sicuro.
Continua...
Nessun commento:
Posta un commento