giovedì 30 luglio 2009

CHIUSO PER FERIE

Due righe per annunciarvi che è tempo di un po' di pausa anche per me. Il mio cervello ha chiesto ferie anticipate ieri, quindi oggi mi tocca sforzarmi - con la scatola cranica ormai vuota - di infilare una parola dietro l'altra per comunicarvi quanto.
Ci vedremo ancora quando le temperature si decideranno a calare.

lunedì 27 luglio 2009

ECHO

ECHO vol.1 Moon Lake (2008, Free Books, 132 pagine in bianco e nero).
Sceneggiatura e disegni di Terry Moore.


Dopo averci incantati e deliziati con quel capolavoro che è Strangers in Paradise, Terry Moore ci riprova con questa nuova serie dai risvolti action e super -.
Tra i candidato all’Eisner Award come nuova serie, sinceramente ad un primo impatto Echo non mi è sembrato quel gran capolavoro di cui parla Harlan Ellison, dalla quarta di copertina. Di certo è una lettura piacevole e ben narrata, ma risulta sicuramente troppo convenzionale se si è abituati al format di SiP in cui Moore, ripescando la struttura delle riviste inglesi degli anni Ottanta, forniva una narrazione che si snodava tra tavole, pagine di solo testo, poesie, schizzi e illustrazioni, canzoni con tanto di partitura.

A complicare la già complicata vita di Julie, fotografa free-lance e dalla complicata situazione sentimentale, si presenta, a Moon Lake, nel deserto della California, una misteriosa esplosione che riversa sulla ragazza piccole sfere viscose che le si incollano al corpo. La situazione sembra peggiorare quando un grosso pezzo dello stesso materiale, caduto nel suo pick-up, aderisce al suo corpo attirando a sé tutte le sfere e incorporandole. Nello stesso luogo, a circa diciassettemila piedi, si consuma la tragedia di Annie, durante il test della Tuta Beta, l’equivalente di una bomba atomica in forma di tuta da guerra.
Così prende avvio la nuova serie di uno dei migliori autori di fumetti degli ultimi vent’anni. Il peso statuario che Terry Moore ha nella storia del fumetto (e, ci tengo a precisarlo, con una sola opera di grandissimo impatto) e la sua straordinaria capacità narrativa lasciano ben sperare per l’evoluzione di Echo. L’impressione è che ci sia già troppa carne al fuoco al primo numero, di cui consegue il timore che la vicenda diventi troppo ingarbugliata o, al contrario, che tenda a risolvere tutto in modo troppo superficiale.
Le tracce narrative avviate in questo primo volume, cui non è ancora seguito un secondo, sono: la storia di Julie con il frammento della tuta; la storia personale di Julie; il dipartimento della difesa sulle tracce dei pezzi della tuta: l’agente NSB Ivy Raven, anch’essa sulle tracce dei nuovi portatori della tuta; la storia di Dillon Murphy, fidanzato di Annie, che si incrocia con quella di Julie.
Un volume che, inevitabilmente, si conclude con una fuga, che poi è un inizio.

Moore riesce a dosare, ancora una volta, ironia, dramma, complotto, evasione e sentimento. Ma, del resto, era assodato che ne fosse in grado, quindi dovrà fare di più per convincere.
In avvio è interessante considerare come il grande potere alle spalle di Strangers in Paradise, avviato nel 1993, fosse una lobby politica-aziendale-criminale votata al potere e al controllo mentre in Echo un ruolo simile sia rivestito da un ente di ricerca bellica e dal combo esercito+ministero della difesa.
SiP arrivava sugli scaffali pochi anni dopo la caduta del muro, in anni di massima distensione (il 1993 è, tra l’altro, l’anno in cui USA e URSS firmano il trattato per la riduzione degli armamenti), quando una delle massime problematiche storiche del dopoguerra statunitense era ormai venuta meno, e le paure del paese venivano, dopo tanti anni, rivolte verso l’interno dei suoi confini.
Echo è anch’essa una serie figlia del suo tempo e vede la propria pubblicazione a pochi anni dal più tragico e sanguinoso evento della storia americana dopo la guerra di secessione. Il disastro al World Trade Center, la paura del terrorismo, la guerra in Afghanistan e Iraq, diventano, così, fondamentali per l’avvio e lo sviluppo della macro-narrazione, costituendone l’alfa e la fonte di tutti gli eventi e gli ostacoli.

La nomination all’Eisner di questa nuova serie, considerati anche i suoi presupposti di partenza, non può che farmi pensare ad un’altra narrazione miliare, candidata e vincitrice per la stessa categoria, l’Invincible Iron Man di Matt Fraction, Salvador Larroca e Frank D’Armata. A differenza della seconda serie regolare dell’uomo di ferro, tuttavia, in cui potentissima tecnologia bellica viene replicata a fini terroristici da scienziati pazzi e multinazionali del terrore, in Echo l’esplosione della Tuta Beta è causa della spartizione del suo potere tra diversi portatori pescati tra donne e uomini qualunque(due, fino ad ora, ma considerando le parti interessate è probabile che appariranno altri); in questo modo Moore offre un ampio spettro di reazione e di approccio al nuovo potere acquisito offrendo, di fatto, se le premesse in questo senso verranno rispettate, uno spaccato dei vari tratti dell’americanità che il mondo dei comics non vedeva dal tempo delle strip di Blondie o Li’l Abner.

Molto da dire in questo centinaio e poco più di pagine. Molto da dire e un buon livello che necessita, tuttavia, di essere innalzato, se l’autore vuole competere con la propria opera maxuma. Terry Moore ha lanciato una sfida a se stesso. La speranza è che la narrazione non si sieda su se stessa ma, anzi, cerchi di confrontarsi sempre con quanto già scritto; solo allora sarà possibile un superamento ed Echo diverrà il degno erede di Strangers in Paradise.

giovedì 23 luglio 2009

PYONGYANG

PYONGYANG (2003; edizione italiana 2006, Fusi Orari, 178 pagine in bianco, nero e toni di grigio).
Sceneggiatura e disegni di Guy Delisle.


Quando si pensa ad un fumetto che trasmette cultura gli esempi si affollano nella mente, ed è spesso difficile sceglierne uno sugli altri.
Quando invece si pensa ad un fumetto che trasmette cultura e, allo stesso tempo, fa informazione allora è impossibile che il primo pensiero non vada a Guy Delisle. Delisle non è un giornalista, è semplicemente una persona che viaggia, che – a quanto pare – sa dove guardare e che è dotato dell’intelletto necessario per porsi le giuste domande.
Pyongyang nasce da un periodo di lavoro ad uno studio di animazione in cui l’autore ha lavorato per due mesi. Due mesi durante i quali ha potuto osservare la vita della capitale nordcoreana e raccontarla con piacevolezza di tratto e ingegnosità di organizzazione dei contenuti.
L’immagine che l’autore canadese ci riporta della Corea del Nord è quella di un paese fortemente cristallizzato in una struttura di gerarchie politiche e militari, dagli elevati livelli di retorica partitica dove è proibito tutto ciò che non è ufficiale o autorizzato dal partito. L’impressione principale è che tutto questo rigore crei un grande vuoto e abbatta le relazioni tra individui, trasformandoli in estranei smarriti in spazi sconfinati.
Forte filo conduttore del docucomic (o docu novel, chiamatelo un po’ come volete) è il discorso sulle libertà personali, su ciò che è concesso e ciò che non lo è, su come il rigore imposto dall’alto sia, di fatto, un modo di imporre un’omologazione alla popolazione, un giogo uniformante.
E allora diviene immediato il parallelo – grazie anche allo stupore generato nel simulacro inchiostrato dell’autore – con l’Occidente.

Pyongyang è il resoconto di questi due mesi, dei suoi momenti culminanti e di quelli quotidiani, come il lavoro agli studi della SNK. Pyongyang è un ottimo esemplare (allo stesso modo degli altri lavori dell’autore) di come il fumetto possa venire utilizzato per raccontare la vita dell’uomo, il mondo, nei suoi tratti e mutamenti. Si possono apprendere molte più informazioni sulla Corea del Nord dal lavoro di Delisle piuttosto che da un qualsivoglia instant book e questo, ancora una volta, lo si deve all’enorme potere del medium fumetto, che informa mentre intrattiene e diverte. Per fare questo, grande è il contributo dello stile grafico dell’autore, maturato in oltre un decennio di lavoro nel cinema di animazione, semplice ma mai avido di dettaglia, brioso e concettualmente ingegnoso e stimolante. A questo si aggiunge, poi, una buona dose di ironia ben padroneggiata, che fa sorridere e, al contempo, riflettere.
Di sicuro Pyongyang è un volume che, una volta ultimata la lettura, non resterà chiuso per troppo tempo.

lunedì 20 luglio 2009

1985

1985 (2009, Paninicomics, 144 pagine a colori, € 13).
Sceneggiatura di Mark Millar, disegni di Tommy Lee Edwards.


Toby Goodman è un normale ragazzino americano come tanti altri, con problemi famigliari e una grande passione per i fumetti Marvel. Passa i pomeriggi a leggere comic books e a discuterne con gli amici, o con i ragazzi del negozio, rifugiandosi in un mondo che, se non è migliore di quello reale, quantomeno ha centinaia di possibilità di esserlo in più.
La vita di Toby viene scossa quando, un giorno, avvista il Teschio Rosso. E l’Avvoltoio. E il Dottor Destino. E Hulk. E il Fenomeno. I ragazzi, si sa, hanno una fervida immaginazione e tendono a fuggire dalle situazioni difficili rifugiandosi in un mondo di loro invenzione; questo è quello che pensano le persone a cui Toby parla dei suoi avvistamenti, suo padre e il suo compagno di giochi. Poi, però, la situazione collassa e una schiera di villain invade le strade del pianeta lasciandosi alle spalle una scia di morte e distruzione. Sarà compito degli esperti salvare la situazione.

Quella che Mark Millar ci propone in questi sei capitoli è una storia dal sapore e dall’ambientazione retrò, il 1985 per l’appunto, che ha a che con gli eroi Marvel ha a che fare solo tangenzialmente, un po’ allo stesso modo di quella pietra miliare che fu Marvels di Kurt Busiek e Alex Ross. Il 1985 segna la chiusura del primo grande crossover dell’era Shooter, Guerre Segrete, in cui gli eroi e i villain vennero prelevati dalla loro vita (e dalle loro testate) per affrontarsi l’un l’altro; una storia, questo 1985, che si aggancia direttamente al finale della storica maxisaga (di ben 12 numeri), proponendosi – dice lo stesso Millar – come un seguito ideale che racconta cosa abbiano fatto i Marvel villain dopo.

Originariamente concepito come un fotoromanzo, 1985 vede ai disegni Tommy Lee Edwards, disegnatore scelto appositamente per il suo essere il più possibile lontano dal fumetto supereroistico, dal tratto fortemente pittorico, o fotografico, come dice lo stesso sceneggiatore. Questo, unitamente al modo in cui è scritta la storia, ai suoi molti dettagli espressivi, al frequente utilizzo di splash page e al concentrarsi quasi esclusivamente su Toby e Jerry, suo padre, aumenta fortemente il livello di realismo della storia. Livello di realismo che tocca il culmine nel momento in cui ai villain è dato di scatenarsi per la città. Il loro essere malvagi è spinto all’eccesso come “quello che un cattivo farebbe se esistesse realmente”: pochi sproloqui, poca naiveté nell’azione criminale e, al contrario, efferata violenza e crudeltà nel compiere il massacro. Questo, considerato anche che tutti i villain prendono ordine da una persona che fa parte dell’universo in cui vive Toby, può suonare come una condanna della reale pericolosità che quei personaggi all’epoca incarnavano.

1985 (inutile non fare immediatamente un collegamento con l’orwelliano 1984, benché dalle premesse differenti) ci offre una storia in cui il reale è reale, in cui i villain uccidono e terrorizzano e in cui la paura fa realmente paura. Una storia come non se ne leggono tante, ricca di momenti entusiasmanti e di una manciata di riferimenti calzanti al momento storico, in cui la fantasia mette sotto scacco la realtà e solo chi combatte con le armi della fantasia (e ha letto montagne di fumetti) sa come far fronte all’invasione, laddove l’esercito si trova annichilito dall’incapacità di far fronte al problema.
1985 arriva, infine, nel pieno del collasso della figura del supereroe, preso in anni di lotta al fianco di altri supereroi contro altri supereroi (i vari Civil War, World War Hulk e Secret Invasion), emblematico di una società ormai priva di riferimenti al punto da opporsi a se stessa. Gli eroi del 1985, forse più ingenui e semplici, erano più giusti e meno cinici di adesso. Una celebrazione di un momento di storia Marvel, quindi, ma anche, si direbbe, uno sguardo nostalgico su una figura – quella del supereroe – ormai contaminata della sua purezza originaria.

giovedì 16 luglio 2009

THE BOYS

THE BOYS (2008, Panini Comics, brossurato, 128 pagine a colori, € 13).
Sceneggiatura di Garth Ennis, disegni di Darick Robertson.


I supereroi sono il male. Non è il grido di battaglia di qualche editore particolarmente snob votato all’introspezione ma il messaggio di fondo del nuovo frutto della mente di Garth Ennis. Momento finale (per ora) della parabola ennisiana sulla figura del supereroe, The Boys è una serie irriverente e sboccata che ruota attorno all’immagine del supereroe come qualcosa di negativo.
I Boys sono una squadra segreta al soldo del governo americano, diretta da Billy Butcher, il cui compito è trattare il problema dei supereroi, la cui leggerezza si sta rivelando essere, più che un aiuto, un problema e un pericolo per la comunità. Lo sa bene Hug “Wee Hugie” Campbell, ultimo ad essere reclutato dopo la morte della sua ragazza per mano di un distratto eroe dalla supervelocità.
Il primo volume edito da Panini raccoglie i primi due archi narrativi del nuovo e irriverente lavoro di Garth Ennis, The name of the game e Cherry; se la prima storia altro non è se non la ricostruzione del team (che, assieme a Butcher e Hug comprende the Frenchman, the Female e Mother’s Milk), la seconda è maggiormente incentrata sui Sette, gruppo di supereroi, e su Cherry e il suo provino per entrare nella squadra.

Quello che emerge, sostanzialmente, è la piena sfiducia nei confronti dell’eroe e di quello che egli rappresenta. I Sette vengono presentati come figure negative e immorali, sessiste e interessate maggiormente al tornaconto economico della loro eroica vita piuttosto che a fare il bene della comunità. Anche per questo motivo la loro attenzione, durante lo svolgimento di una missione, si concentra sul nemico e non sull’ambiente circostante, causando danni a edifici e persone. Due punti nodali sviluppati, a suo tempo, nell’X-Force/X-Statix di Milligan e Allred (incentrato sulla spettacolarizzazione televisiva del supereroe) e nella maxisaga Civil War, scritta da Mark Millar e disegnata da Steve McNiven. Il supereroe, dunque, non è più mal indirizzato o potenzialmente utile a seconda del proprio libero arbitrio. L’eroe è pericoloso e deviato, addirittura corruttore morale, interessato soltanto alla soddisfazione degli istinti più bassi, come rivelerà il “test” di Cherry per entrare nei Sette.
Squalificando l’icona dell’eroe, tuttavia, Ennis ne distrugge il mito e il motivo fondante. In passato gli eroi avevano combattuto battaglie giuste, ispirando al patriottismo e divenendo, di fatto, il simbolo della lotta per la libertà e per la sicurezza, nonché emblema del paese che più incarnava questi valori negli anni Quaranta e Cinquanta. Con il passare del tempo e delle amministrazioni, e l’intaccarsi del sogno americano, tuttavia, gli eroi sono andati sempre più allo sbando, inseguendo nemici in un’escalation di autoreferenzialità culminante in primo luogo nel rapporto con un villain non più interessato alla dominazione o alla ricchezza ma semplicemente all’annientamento dell’eroe di turno (poco importa se questo comporta morti e distruzioni collaterali), e in secondo luogo a futili scontri tra eroi in nome di una visione delle cose piuttosto che di un’altra. Il pericolo insito nella figura degli eroi, dunque, è da ricercarsi nell’assenza di una linea guida, che li porta a doversene creare di proprie, con il rischio che queste entrino in conflitto. Dunque gli eroi non rappresentano più il paese, la popolazione, il sogno, ma rappresentano se stessi, rappresentano il singolo, con tanto di vizi, debolezze e aspirazioni personali. Ed è in una situazione come questa, in cui la gente non riconosce l’operato dell’eroe e delle istituzioni cui questi dovrebbero far riferimento, che è la stessa collettività, ma sotto forma di élite, a decidere di salvaguardarsi dal proprio paese. Una critica forte, in questo senso, all’amministrazione di un paese che ha voltato le spalle ai molti problemi della popolazione negli ultimi anni (sia problemi di integrazione, di istruzione, che problemi economici o legati all’aumento dell’attività criminale o, ancora, problemi di prevenzione e ricostruzione legati a calamità naturali), nel vano tentativo di inseguire una guerra (e un forzoso processo di democratizzazione/assimilazione/dominazione) già inizialmente dalla difficile vittoria.
Una serie fortemente metaforica e dai molteplici livelli di lettura, The Boys, esemplare di un modo di fare fumetti di stampo tipicamente britannico, come è possibile vedere nelle opere di autori come Mark Millar, Pat Milligan, o di autorità del fumetto come Jamie Delano, Neil Gaiman o Alan Moore.

lunedì 13 luglio 2009

THE WALKING DEAD

THE WALKING DEAD (2003-2009; edizione italiana 2005-2009, Saldapress, brossurato, 144 pagine bianco, nero e toni di grigio, € 11,50).
Sceneggiatura di Robert Kirkman, disegni di Tony Moore.


Al di là della pentalogia (presto esalogia, e con molta probabilità n-logia) di George Andrew Romero e poche altre cose, l’impressione è che sugli zombie ci sia poco altro da dire, e molto di quanto sia già stato detto sia superfluo.
Con un certo grado di consapevolezza il mondo del fumetto questo deve averlo recepito, perché se si eccettuano le storie comparse sui periodici E.C. Comics (Haunt of fear, Tales from the crypt, Vault of horror) e, in generale, quelle del revival horror Creepy ed Eeerie, oppure il vecchio Simon Garth di Marvel Comics e qualche numero di Dylan Dog, niente è stato scritto sugli zombie. Una serie (recentemente riproposta) e qualche storia, dunque, cui si aggiungono in tempi più recenti le storie dell’universo Marvel Zobies, di scarso impatto.

Consideriamo per un attimo la figura dello zombie. Uno zombie è una persona morta e risorta dopo una certa quantità di tempo, sufficiente ad impedirgli qualsiasi tipo di ragionamento e di azione che non sia fondamentale all’autosostentamento, vale a dire a mangiare carne, non necessariamente umana. La giornata tipo dello zombie inizia nel momento in cui questo si risveglia dalla morte e finisce quando qualcuno gli pianta una pallottola in testa, o gli sfonda il cranio, per dire, a colpi d’ascia.
Ne converrete che con queste premesse non è possibile farci molto, tantomeno sviluppare la figura. A meno di chiamarsi George Andrew Romero.
O a meno di chiamarsi Robert Kirkman. E finalmente arriviamo a The Walking Dead, che ha il pregio di affrontare la materia zombesca in modo originale e “attuale”. Quello che fa l’autore, infatti, seguendo la direzione indicata da Romero, ma perfezionata ed espansa, è di curarsi il meno possibile del fattore zombie e mostrarci come reagisce una piccola comunità di sopravvissuti al continuo ritrovarsi circondati da zombie. Kirkman non si preoccupa minimamente di indagare il come e il quando sia partita la zombificazione, né se il processo sia di tipo scientifico, magico o deterministico, ma lo assume come elemento che da un determinato momento diviene una costante e, di lì, lo considera come verrebbero considerate le zone verdi in una cittadina: ci sono, fanno quello che normalmente fanno gli zombie e stop.
È a questo punto che prende avvio il processo narrativo e di scavo operato dagli autori, che ci mostrano il cammino per la sopravvivenza di un piccolo gruppo di sopravvissuti, la loro reazione all’”invasione”, a una nuova vita che si presenta come una fuga continua, priva dei privilegi che ormai una società capitalizzata da per scontati. Paure, amori, diffidenza, regolamentazione, responsabilità. Il problema del cibo, di una sistemazione, di un ritorno ad uno status quo, possibilmente a qualche comfort, la sicurezza. Ma anche l’insicurezza, il richiudersi sempre più su se stessa di una piccola società che lentamente ma inesorabilmente slitta nella paranoia e schizofrenia, nel dubbio.
Un’opera madornale, tutt’ora in corso di pubblicazione negli Stati Uniti, resa ancora più potente dai grigi di Tony Moore, che sembrano voler fare riferimento al primo Night of the living dead o ai fumetti E.C.
Una serie che, con un lavoro continuo di ridefinizione identitaria, ci rende consapevoli di come siano gli esseri umani ad essere i morti viventi, incapaci di sfuggire alla morte e, di conseguenza, al ritorno. Ma se, dunque, noi siamo i morti viventi, se la società ci ha completamente rimbecilliti, riempiendoci occhi e orecchie di cultura spazzatura, di regole e leggi talvolta assurde; se siamo noi quelli che spesso vanno avanti per inerzia, lavorando per un mondo migliore per gli altri, paralizzati negli schemi fissi di una vita che ormai ci siamo convinti non poter essere in un altro modo; se siamo noi quelli talmente ammassati l’uno sull’altro da ritrovarci, paradossalmente, isolati l’un l’alto, allora qual è la via d’uscita? Rassegnarsi ad essere ingranaggi e attendere l’estinzione? O un colpo in testa? Chissà che prima o poi Kirkman, dopo tanta minuzia d’analisi, non ci riveli anche come venirne fuori, o perlomeno come provarci.

giovedì 9 luglio 2009

SPOTLIGHT: CAPITAN AMERICA (2 di 2)


Con l’inizio di Civil War, per la prima volta, la Marvel instillò il dubbio nei lettori che il buon capitano potesse avere torto. Certo, personaggi machiavellici e ben più egoisti come Tony Stark o Reed Richards sembravano essere palesemente nel torto in un numero maggiore di situazioni. Ma fu quel “tu da che parte stai?” che per la prima volta ne mise in discussione l’operato. Allora l’America era già spaccata in due dall’amministrazione Bush e dalle sue scelte errate, dalla guerra, dalle problematiche sociali, e in tutto questo gli eroi se ne stavano a pestarsi per i fatti loro radendo al suolo New York. Non certo un capitolo di cui andare orgogliosi. La posposizione del bene della popolazione alle scaramucce tra eroi era già un chiaro segnale del venir meno del sogno in ogni suo aspetto, un sogno che fu poi definitivamente spezzato dal complotto (Brubaker) per uccidere Capitan America.
Una morte che, teatralmente, non può non ricordare la morte di un altro personaggio amato dagli americani, John Fitzgerald Kennedy: se Kennedy era scortato in automobile accerchiato da una folla esultante, Steve Rogers veniva condotto in tribunale ammanettato, umanizzato dalla sua posizione di inferiorità, smitizzato, circondato da una folla che si divideva tra sostegno e disprezzo; in entrambi i casi ci fu il fuoco di un cecchino, in entrambi i casi come diversivo per coprire il vero attentatore.
La morte di Capitan America incarna la morte di un Paese che negli ultimi anni ha fatto parlare di sé più in modo negativo che altro, non ultimo, ad esempio, lo scandalo di Guantanamo (del quale durante la Guerra Civile viene costruito un emulo per superesseri, la prigione 42 nella zona negativa) o di Abu Ghraib, o ancora la distruzione di New Orleans ad opera dell’uragano Katrina e la situazione di caos e delirio dei giorni che ne seguirono.
È da qualche mese che, sulle testate italiane, assistiamo al passaggio di poteri e all’investitura di Bucky Barnes nel ruolo di nuovo Capitan America. Nello stesso numero di Thor e i Nuovi Vendicatori contenente la storia A Visit è possibile leggere il capitolo conclusivo della lunga storia di Brubaker The Death of Captain America, in cui la spalla di sempre del capitano viene accettato nel suo nuovo ruolo di sentinella della libertà da parte della comunità e dell’opinione pubblica statunitensi. I “figli” raccolgono l’eredità dei “padri”. È storia americana.

Peccato che, allo stesso tempo, pochi giorni fa, sia stata data la notizia di una nuova saga della bandiera vivente voluta dallo stesso Brian Michael Bendis, attuale regista dell’universo Marvel, intitolata Captain America Reborn, in cui si assiste alla resurrezione di Steve Rogers e, presumibilmente, al suo ritorno ai panni di Capitan America.
Nel mezzo ci sono Secret Invasion e Dark Reign, due archi narrativi che, assieme a Civil War, non solo hanno minato la fiducia nel prossimo all’interno dell’universo Marvel, per poi ribaltare l’ottica e far apparire buono il cattivo e viceversa, distruggendone i punti di riferimento, ma hanno anche puntato il riflettore sulla completa perdita d’identità del Paese. Vedere gli eroi che si combattono tra loro, vedere gli eroi che non sanno più che pesci prendere, vedere skrull che si credono eroi e cattivi che si comportano come eroi ed eroi che sono costretti alla macchia, non fa altro che minare di continuo le convinzioni dei lettori, scombinando e riassettando per poi scombinare di nuovo.
E questo è in linea con l’assenza della figura di riferimento per eccellenza.
Se quindi decidiamo di vedere tutta la confusione degli ultimi anni come un riflesso della situazione sociopolitica statunitense, è impossibile non leggere questa rinascita come la rinascita di un ideale che porta in sé i semi di una rinnovata fiducia verso il paese.
Considerate le normali tempistiche editoriali e la rigidità di un progetto narrativo che deve vedere il suo corso non è impensabile che l’idea sia venuta a Bendis con la conclusione della nuova tornata elettorale e con l’elezione del nuovo Presidente.
Barack Obama, nero, giovane, aperto al cambiamento, è senza ombra di dubbio una figura stimolante per la politica interna ed estera del Paese, senza contare la sua volontà di dare un taglio agli errori del passato e alle loro ripercussioni sul presente (che poi lo stia facendo in modo un po’ troppo parco è un’altra questione). Ed è di sicuro una figura in cui è stata riposta una grande fiducia da parte di tutta la comunità, fiducia amplificata dal fatto di essere il primo presidente nero, cosa che, bisogna dirlo, abbastanza ingenuamente, porta l’opinione pubblica americana e internazionale a vedere in lui il volto di una nuova America.
In appoggio a questa ritrovata fiducia e identità ecco che ritorna la sentinella della libertà. Un ritorno più o meno gradito, più o meno ben giustificato (per ora propendo per il meno, il fatto che lo spirito di Steve Rogers persista congelato nel tempo non solo mi sembra troppo stupido ma carica di un valore troppo mistico la figura di un eroe i cui poteri, per quanto super, sono sempre stati molto terreni), ma che di sicuro sembra essere in linea con il nuovo senso di rinnovamento dell'America.

martedì 7 luglio 2009

Spotlight: Capitan America (1 di 2)

«Per tutta la vita, ho combattuto per diventare un simbolo. Un simbolo per tutte le cose giuste di questo paese, tutte le cose che amavo. E ora stanno cercando di trasformare quel simbolo in qualcosa di conveniente, che possa servire al meglio il programma politico dell’uno o dell’altro schieramento. Li sento parlare senza sosta… i media, la stampa… Non capiscono. Non ha mai riguardato la politica o me in particolare. Riguardava il paese. Ha sempre riguardato il paese. Ma loro non sentono quella verità al di sopra della loro voce

Quello che sembra un monologo è in realtà parte di una lunga conversazione tra Thor e Capitan America, tenutasi sul numero 11 di Thor (in Italia su Thor e i nuovi vendicatori 123, giugno 2009) ed è una delle cose che più mi ha colpito delle uscite di giugno.
La situazione è a dir poco ieratica: davanti alla statua di Cap, Thor evoca lo spirito dell’amico e compagno di tante battaglie che gli appare, spettrale, al centro di una concentrazione di ceri, fiori e biglietti. Un fantasma azzurro sul cui petto la stella bianca sembra un faro da tanto brilla. I due non si incontravano dal 2004, da prima di Avengers: Disassembled!, cui il dio del tuono non partecipò perché impegnato a combattere su Asgard durante il Ragnarok. Poi Thor morì. I Vendicatori si sciolsero. Si formarono i Nuovi Vendicatori. Ci fu l’atto di registrazione dei superumani, la guerra civile. Poi morì Capitan America e, di lì a poco, rinacque Thor e Bucky, storica spalla degli anni Quaranta, divenne la nuova bandiera vivente.
All’epoca di A Visit, questo il titolo della storia di cui si sta parlando, le elezioni americane non si erano ancora tenute, e si era anzi in piena campagna. Di qui la strumentalizzazione della figura del capitano nelle pagine successive quando, ad un talk show, ci si chiede per quale candidato avrebbe votato, con “esperti” e “studiosi” della bandiera vivente.

Ha sempre riguardato il paese.
La strumentalizzazione di un simbolo che riguarda la collettività da parte di una parte politica è di per sé un errore. A maggior ragione considerando che il suo legame con la collettività è ben più che qualcosa di superficiale, ma è qualcosa di profondamente intrinseco.
Durante la seconda guerra mondiale gli editori di fumetti americani andavano in cerca di qualcosa su cui poter catalizzare l’attenzione e il patriottismo della popolazione. Un simbolo di tale portata, raffigurato nello scontro con il nemico di allora, si rivestiva allora di tutto un set di significati propri del paese, a partire (e questo lo possiamo dire col senno di poi) dal ruolo fondamentale degli Stati Uniti per il concludersi del conflitto. Una figura come quella di Capitan America incarnava il sogno democratico che si ergeva a difesa del vecchio mondo, minacciato dal pericolo dei totalitarismi; fungeva inoltre da supporto per il morale dei soldati al fronte, e da ispirazione per i giovani americani.

Poi vennero le guerre “imperialiste” e la bandiera vivente rimase in panchina, assieme agli altri eroi, perché non si addice a un simbolo di combattere una guerra sbagliata. Piano piano la figura di Capitan America si fece più introversa, trasferendosi dai campi di battaglia ai nuovi sentieri di guerra: le strade delle metropoli, in cui le battaglie combattute erano, se si vuole, ben peggiori di quelle combattute con le armi da fuoco. Erano il disprezzo, l’odio e l’indifferenza ad alimentare il nuovo male sociale, le discriminazioni razziali, culturali, sessuali, la droga, la criminalità organizzata. Arrivò addirittura un punto in cui Steve Rogers, che, non bisogna dimenticarlo, rimane pur sempre un soldato, decise di prendere le distanze dal governo statunitense e “mettersi in proprio”. Fondamentale, per il suo credo, era servire alla popolazione, non servire il governo. In tutti questi anni la figura di Capitan America ha sempre incarnato una visione tipicamente primonovecentesca dell’America, anche qualora la realtà del paese si discostasse da essa, e questo proprio perché non ha mai riguardato la politica ma ha sempre riguardato il paese.
La figura di Cap è sempre stata equiparabile a quella di un generale cui tutti davano ascolto e da cui tutti traevano ispirazione, anche i personaggi più liminari come il Punitore. Eppure è stato uno di quei generali come non se ne vedono molti, uno di quelli che nella battaglia sono in prima linea sotto le bombe, e non nelle retrovie a manovrare, al sicuro.

Continua...

giovedì 2 luglio 2009

BATTLE ROYALE

BATTLE ROYALE nr. 1-2 (2000; edizione italiana 2009, Panini Comics, 208 pagine in bianco e nero).
Sceneggiatura di Kōshun Takami, disegni di Masayuki Taguchi.


Ritorna per Panini un classico del manga di inizio millennio, pietra miliare nonché capostipite del nuovo filone di manga iperviolenti. Attenzione però, iperviolenti ma in cui, tuttavia, la violenza è finalizzata e non è mai (del tutto) fine a se stessa.

Già dalla prima pagina ci vengono fornite tutte le notizie necessarie a ricostruire il setting di una delle storie più deviate di inizio millennio: nella Grande Repubblica dell’Estremo Oriente, paese militarizzato e autarchico, in contrasto con gli Stati Uniti e, di fatto, il resto del mondo, il governo ha forzato la mano sulla vita della popolazione. Culmine di questa politica è il “Program”, una sorta di gioco sadico che interessa le terze medie della Repubblica: ogni anno la classe ritenuta più indisciplinata viene selezionata e i suoi studenti vengono abbandonati su un’isola sorvegliata e sono costretti ad uccidersi tra loro fino a che non ne rimane uno solo, il vincitore.
È un giorno come un altro quando i quarantadue studenti della terza B della scuola media comunale di Shirowa (Kagawa) si risvegliano in una classe che non è quella in cui solitamente fanno lezione. Ad accoglierli c’è Yonemi Kamon, individuo che risulta immediatamente disgustoso, che si presenta come nuovo responsabile della classe. Ad ogni studente viene consegnata una sacca contenente cibo, acqua, una mappa della zona, una bussola, un orologio e, soprattutto, un’arma. Chi si oppone o crea fastidi viene immediatamente eliminato. Ha così inizio, per loro, l’incubo del Program, che passerà sopra ad ogni amicizia, creerà nuovi legami di opportunità e instillerà. Questo non sembra andare a genio a Shuya Nanahara che, nonostante la coralità della storia, rivela già dal primo numero di rivestire una posizione leggermente più protagonista degli altri: il ragazzo, a differenza di molti suoi compagni, cercherà da subito di escogitare un piano di fuga coinvolgendo i suoi compagni e opponendosi al regolamento che vuole un solo vincitore. Ma i suoi compagni non sembrano tutti dello stesso avviso.

Molti sono gli elementi di Battle Royale da tenere in considerazione, benché il manga pecchi, come molta della produzione nipponica, nel dare maggiore importanza alla coralità del mondo in cui viene narrata la storia piuttosto che a un personaggio protagonista forte, come è nella maggior parte del fumetto europeo o statunitense.
La prima cosa da tenere in considerazione è il legame con la situazione sociopolitica giapponese, che da sempre viene presentata nei manga come una regolamentazione della vita umana troppo rigida e classista. Queste considerazioni aumentano a seguito di gravi scandali politici nei primi anni Settanta, che portano ad un sostanziale clima di sfiducia nel governo, sfiducia che pare essere ancora viva e nemmeno troppo mascherata nelle pagine del tandem Takami-Taguchi. Da sempre infatti, nei manga, laddove si prenda in considerazione un governo dalle connotazioni eccessive (ancor di più se il riferimento a quello giapponese è evidente e allo stesso tempo volutamente mascherato), il motivo scatenante è la denuncia di una società fortemente gerarchizzata e asservita, le cui norme e abitudini vengono percepite come limitanti delle libertà personali. L’uso sfacciato di una violenza così efferata (solo nel primo numero si assiste ad uno stupro, un colpo di pistola a bruciapelo in faccia con asportazione di parte della mandibola e della lingua, un colpo di pistola a bruciapelo nella testa, un altro in una gamba, due studenti con la testa trapassata da una freccia, una ragazza sgozzata con un falcetto, una ragazza pugnalata in fronte) accentua il senso di erroneità di questi eccessi normativi attraverso la provocazione e allo sconvolgimento del lettore.
Altro elemento di fondamentale importanza, collegato al primo, è come il contesto alteri le relazioni umane. I ragazzi si ritrovano a dubitare l’uno dell’altro, e questo giova ad alcuni ed è la rovina di altri; certo c’è chi si oppone e si associa per ribellarsi alla crudeltà priva di senso del Program, ma sicuramente c’è anche chi si stringe attorno al più forte per trarne vantaggi e appoggio nell’eliminare gli altri compagni, in attesa della resa dei conti finale. È forte, in questo senso, la critica alla competitività che il Giappone impone in ogni settore della vita sociale, dalla scuola, al lavoro, allo sport.
Questo ci porta al terzo aspetto cardine della serie: la fiducia. È importante tenere a mente che in Giappone le classi vengono riformate ogni anno, rimescolando tra loro gli studenti dello stesso anno, per cui non è detto che dopo tre anni la classe possieda un solido affiatamento. Questa è la maggiore causa di ombre nella fiducia degli studenti della terza B, come emerge dai pensieri di Shuya nel tentativo di individuare di chi potersi fidare e da chi guardarsi.

Una sola considerazione relativa ai disegni di Masayuki Taguchi, disegni tradizionalmente ascrivibili allo stile grafico classico del fumetto orientale, ricchi di pose plastiche assurde il cui uso è sostanzialmente funzionale a creare enfasi nella tensione narrativa. Nonostante una certa uniformità alle tendenze grafiche del sol levante, tuttavia, è lodevole (ma sarebbe stato stupido il contrario) il non assomigliarsi dei quarantadue studenti non solo grazie ad accessori ed espedienti comportamentali, ma anche e soprattutto per le fisionomie e l’espressività del volto. Tradizionali sono, invece, la gestione delle tavole, la gestione delle scene d’azione e le tipologie di studenti “negligenti”, dal musicista (il cui ruolo negativo è dovuto al bando sulla musica rock come avversione alla cultura americana), allo sportivo-playboy, dal lottatore allo yakuza e quant’altro la tradizione manga ci abbia mai insegnato in fatto di studenti scapestrati.

Battle Royale è una buona critica, forse una delle migliori, ad una società che si sta perdendo, esplosa e frammentata all’interno di un recinto, deviata dalle proprie regole, una società che si sta perdendo per strada, nelle spire di megalopoli avanguardistiche in cui ammassamento non è altro che un sinonimo di isolamento e la norma un giogo troppo stretto e pesante.