lunedì 29 giugno 2009

ARCASACRA

ARCASACRA (2009, Nicola Pesce Editore, brossurato, 80 pagine in bianco e nero, € 10).
Sceneggiatura di Alex Crippa, disegni di Emanuele Boccanfuso.




Da un lato una prostituta col piercing al naso si sta truccando. Dall’altro una suora che sembra emergere dall’oscurità stringe in mano una croce. Due punti d’inizio per una storia che di fatto è due storie, che si incontrano al centro.
Da una parte Ada, giovane ragazza albanese sbarcata a Brindisi e spinta con la forza nel mondo della prostituzione. Tra i pochi effetti personali della ragazza un biglietto con scritta la misteriosa parola “ARCASCRA”.
Dall’altra parte Anna, sua sorella, salvata dal suo destino dalle suore, profondamente mossa dal desiderio di dare una vita migliore alle giovani prostitute. Indignata per il lassismo della comunità di fedeli, quando Anna non parla con loro cerca conforto nella figura di un Cristo non propriamente alla “porgi l’altra guancia” (a meno che lo si intenda in una versione BudSpenceriana del termine), dalle pose da maledetto.
Una storia di luci e ombre ambientata laddove è il male ad agire in pieno giorno, alla luce del sole. Una storia di fede, prostituzione, sacra corona unita, reazione. Una storia pulp sboccata e violenta.
Una storia che poi, alla fine, son due storie.

Dal tandem Crippa-Boccanfuso una nuova sfida al mondo del fumetto, la riprova che è possibile essere prolifici fumettisticamente e, al contempo, non perdere in originalità. ArcasacrA, infatti, non solo può vantare una storia avvincente e una veste grafica invidiabile. ArcasacrA si aggiudica, infatti, il primato di primo fumetto palindromo, grazie alla particolarità di poter essere letto sia partendo da un estremo dell’albo sia partendo dall’altro, proprio come un termine palindromo. Giunti a metà si gira l’albo e si prosegue con la lettura. Sta al lettore decidere da quale parte iniziare.
Da sempre interessato al come raccontare una storia, Crippa gioca qui la carta di una sperimentazione che probabilmente nemmeno a Moebius è mai passata per la testa. Il fattore importante, tuttavia, è che questo sigla un nuovo patto tra autori e lettore. Nuovo nel senso di innovativo, perché se fino ad ora il lettore ne faceva parte in quanto colui che usufruisce del lavoro degli autori, con ArcasacrA si raggiunge un livello di interazione superiore, poiché il lettore viene promosso al ruolo di ordinatore della lettura, scegliendone di volta in volta il punto d’inizio.
Lo stile di Emanuele Boccanfuso mi sembrava adatto ad una storia simile già al tempo in cui comparirono le prime immagini. Trovavo il modo in cui sapeva dosare i bianchi e i neri molto efficace in certe sequenze, come ad esempio la sequenza notturna all’interno del convento nella storia di Anna. Un tratto che ricorda molta produzione italiana, specialmente di casa Bonelli, ma che dimostra di essere riuscito a passare oltre, ed il dosaggio del nero, nelle sue forme diverse, è il caso secondo me più lampante di questo superamento.
Alex Crippa, dal canto suo, gioca la carta di una scrittura genuina ma non banale, efficace e non artificiosa, con un buon effetto di realtà, una giusta dose di ironia; all’occorrenza non ci nega un pizzico di polifonia e di retorica, nelle sequenze in cui le didascalie inondano la scena delle parole di Hotel California, celeberrimo pezzo degli Eagles.
Oltre all’aspetto sperimentale, ai disegni, alla scrittura, al bianco e al nero, alla doppia copertina, alla doppia storia e alla storia in sé ArcasacrA affronta una materia molto sentita nel nostro paese, specialmente negli ultimi tempi, quella dell’immigrazione clandestina verso l'Italia di migliaia di persone in fuga da un'inferno, vista dai più come un’invasione e non come l'anelito alla possibilità di una nuova vita. Dopo il percorso di crescita del Monco in Come un cane e l’indagine metafisica di Jonah Martini, Alex Crippa punta la lente sull’Italia dei nostri giorni, su una delle sue tematiche più calde che ancora non mette d’accordo la popolazione in direzione di una soluzione comune e accettabile. È in questa spaccatura che si insinua l’operare della criminalità, che sfrutta le precarie condizioni di queste persone per i propri traffici, specialmente (come vediamo qui) per il racket della prostituzione.
Con queste carte ArcasacrA ha tutto quello che serve per essere un’ottima lettura.

giovedì 25 giugno 2009

FLASHBACKS

FLASHBACKS (dic. 2008 The Amazing Spider-Man 574; edizione italiana 2009, Panini comics, 22 pagine a colori, in Spider-Man 511, € 3).
Sceneggiatura di Marc Guggenheimn, disegni di Barry Kitson e Mark Farmer.


Fumetto e guerra. Intrecciati da sempre come due amanti, ormai presi in un vortice di ritrosia. Finchè la guerra è stata considerata giusta dall’opinione pubblica il fumetto supereroistico ha risposto appoggiandola e sostenendo i soldati al fronte. Classico, ormai, è l’esempio della seconda guerra mondiale, in cui tutti gli eroi di tutti gli editori di comic books vennero impiegati.
La guerra successiva fu quella in Vietnam. In essa l’opinione pubblica, non solo americana bensì mondiale, vide una manovra imperialista degli Stati Uniti, finalizzata al puro arricchimento personale. Il baluardo della democrazia internazionale iniziava a dare i primi segni di cedimento; gli eroi decisero di voltare le spalle e non prendervi parte.
Fin dal lontano Aprile 1970 (con il racconto The Schemer, sulle pagine di Amazing Spider-Man 83) il volto Marvel della guerra fu incarnato da Eugene “Flash” Thompson. Là lo si vedeva partire volontario per servire il proprio paese in Vietnam, ora, trentotto anni dopo, lo si vede di ritorno dall’Iraq. Ma se dal Vietnam il buon Flash tornò fidanzato e con un treno di problemi, nonché con la necessità di una rettifica di una ventina d’anni dopo la sua partenza(1), dall’Iraq vedremo che tornerà con problemi ben più grossi.

La storia di per sé è discreta. Flash, a riposo in un ospedale da campo a Landstuhl, in Germania, viene raggiunto dal Generale Fazekas, desideroso di intervistarlo per conferirgli una medaglia d’onore. Viene ricostruita così la vita di Flash in alcune dei suoi momenti salienti; un po’ fa sorridere (e un po’ no) pensare che il giovane fosse nell’archivio dell’FBI da quando il Dottor Destino lo rapì, scambiandolo per l’Uomo Ragno. Inizia poi la rievocazione dell’ultima operazione militare, una missione, ricorda il ragazzo, “isola e setaccia” nella città di Mosul, una missione “standard” che “serve a sgombrare il campo”. Il carro, tuttavia, viene colpito e la squadra viene presa d’assalto dai “ribelli”. In seguito ad un’esplosione un compagno di Flash rimane sepolto sotto le macerie di un muro crollato, così il ragazzo fa di tutto per proteggerlo e difenderlo, fronteggiando da solo sei nemici. La sua scelta, tuttavia, per quanto eroica, gli costerà un caro prezzo: lo scontro con i “ribelli” e i lunghi tempi d’attesa tra la liberazione e l’arrivo dei soccorsi costeranno a Flash l’uso delle gambe, che vediamo, nell’ultima pagina, essergli state amputate. Avrebbe potuto correre subito a chiamare rinforzi, ma così il suo compagno sarebbe probabilmente stato ucciso dal nemico. E allora ecco che, ancora una volta, in situazioni tragiche come la guerra o le catastrofi, quelle reali in cui i supereroi non possono realmente intervenire, che è l’uomo comune a farsi eroe, in un tentativo di emulazione di un supereroismo bandiera che ne sia ispirazione.

Devo riconoscere di essere stato shockato dal finale di questa storia. Flash Thompson è uno di quei comprimari che negli anni si è scavato un posto nel cuore dei lettori, passando dal suo essere bullo fastidioso e vessatore a giovane responsabile e consapevole. Eppure alla Marvel forse non deve stare troppo simpatico, visti gli ultimi rivolgimenti: al soldo di Osborn, poi in coma per diverso tempo, poi di nuovo bullo nel periodo strettamente post-coma. E ora questo. Il trattamento riservato a Flash da Marc Guggenheim è spietato, dalla vignetta che ironizza sul suo soprannome (che niente ha a che fare con il football) al motivo della sua degenza nell’ospedale da campo. Ok che nell’universo Marvel problematiche di questo tipo vengono generalmente risolte al primo cambio di team creativo (tremo solo al pensiero che qualcuno proponga qualcosa del tipo “hey perché non iniettiamo a Flash il siero di Lizard; riavrà le gambe e poi….”).
Per quanto volontario Flash non riesce a non farmi pensare alla polemica avanzata da tanti (ma al momento, sinceramente, il primo nome che mi viene in mente è quello di Michael Moore) sui continui invii di giovani americani in Iraq da parte dell’amministrazione Bush. Centinaia di migliaia di ragazzi mandati a morire quando avrebbero potuto meglio servire il proprio paese in patria; ad esempio penso a New Orleans e alle sue problematiche di ordine civile ed edile nel post-Katrina. Volontario o meno, Flash incarna quei giovani il cui futuro è stato troncato o mutilato da una guerra che, di fatto, se sia giusta o meno non è dato saperlo.



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(1) Dal momento che il tempo nell’universo Marvel scorre diversamente dal tempo nel mondo reale, per cui all’incirca quattro anni di storie rappresentano un anno di tempo “reale” (viceversa avremmo ormai eroi datati), il periodo vietnamita di Flash è stato giustificato in un modo altro dal conflitto, pur mantenendo gli aspetti che ne sono derivati (la fidanzata Sha-shan e le varie problematiche con la famglia).
D’altra parte forse nemmeno il bullo che un tempo era Flash avrebbe voluto servire il proprio paese in un momento così controverso della propria storia ed era difficile da mandare giù il fatto che un fan di Spider-man come lui, per quanto patriottico, potesse prendere parte ad una guerra così sbagliata.

lunedì 22 giugno 2009

THE PRO

THE PRO (2008, Edizioni BD , brossurato, 80 pagine a colori, € 9).
Sceneggiatura di Garth Ennis, disegni di Amanda Conner.


Nel 2002 Garth Ennis ritortnò a scrivere di supereroi con un’irriverenza mai vista prima. Affiancato dalla poco più che esordiente Amanda Conner alle matite, Ennis, con questo lavoro, toglie con un grosso scalpello la patina di idealizzazione che riveste la figura del supereroe, così come ce l’avevano raccontato le case mainstream.
Si perché The Pro altro non è che the prostitute. Ricevuti i suoi poteri (forza, resistenza, velocità, volo) da un alieno chiamato the Viewer (scherzosa parodia del marvelliano Uatu the Watcher e più volte indicato come “the Voyeur”) una prostituta come tante viene avvicinata dalla League of Honour, parodia della Justice League costruita con copie irriverenti dei più potenti eroi DC Comics. I suoi modi poco convenzionali e poco ortodossi, tuttavia, le creeranno più di un problema e risolverà che i suoi nuovi poteri possano essere più utili per migliorare la propria vita e rendere più munifico il proprio lavoro.

The Pro è un fumetto americano del 2002. Il che ha un significato molto forte, non tanto perché è del terzo millennio quanto, piuttosto, perché viene dopo l’attacco alle torri gemelle e l’inizio della guerra in Afghanistan. Gli Stati Uniti non sono più l’intoccabile baluardo della democrazia (se mai lo sono stato). Hanno visto che cosa voglia dire trovarsi la guerra in casa, o qualcosa che ci va molto vicino. Di conseguenza l’eroe non americano esportato da Garth Ennis non è più quello che arriva baldante in una zona di guerra e ti salva la situazione. Tutt’altro, dalle parole della protagonista sembra si sia tornati alla dottrina della porta chiusa. Gli USA si occupino dei loro problemi e gli eroi americani si occupino dei problemi del paese e non delle loro piccole scaramucce tra superuomini.
Tra l’ironia bizzarra degli eventi che si susseguono Ennis, che americano non è, porta un affondo figura del supereroe di inizio millennio, accusato di inutilità, di non lavorare per la gente perché troppo preso dal supercattivo di turno. Con un linguaggio sboccato, eccessivo e carico di un razzismo di ritorno post 9/11, The Pro denuncia, di fatto, l’errore di alimentare ancora un mito che, evidentemente, aveva forza di esistere solo perché retto da una nazione potente e intoccabile. Lo stato di crisi con cui gli Stati Uniti iniziano il nuovo millennio è tale da chiedere, seppur con una certa stupidità, dove fossero allora gli eroi. In un cinquantennio di crescente spettacolarizzazione, in assenza di una guerra “giusta” in cui combattere(1), una volta esaurite le battaglie sociali (un esempio tra tante è quella contro la droga sulle pagine di Amazing Spider-Man) con cui schierarsi, gli eroi (con le dovute eccezioni) entrarono con gli anni Novanta nell’era delle grandi saghe, prima periodiche e ora continue, nel tentativo di alzare sempre di più il tiro e proporre qualcosa di sempre più shockante. L’attenzione per la realtà negli ultimi anni sta ritornando, nascosta sotto agli espedienti narrativi dalla mano di autori capaci. Ma qui si sta divagando, perché The Pro è opera dell’inizio Duemila, e in quanto tale ha come secondo termine di paragone le grandi saghe (quelle che da noi sono stati i grandi crossover estivi, giusto perché così il lettore occasionale, con l’allentarsi della tensione nel mondo reale, lo stacco dal lavoro e l’arrivo delle meritate vacanze, veniva invogliato a continuare gli acquisti) degli anni Novanta che, per quanto magari ben narrate e disegnate, ben poco avevano da dire al lettore di sé. Si potrà obiettare che un lettore interessato a colmare il proprio vuoto ontologico ben potrebbe trovare nel fumetto supereroistico, ma sarà di certo un’obiezione errata, la storia mi è testimone. E quindi The Pro punta il dito e alza la voce, si incazza e accusa, attraverso una critica al supereroe, tutta quella produzione ben confezionata ma povera di contenuti. Perché mentre gli eroi giocano la gente muore.

Distrutto il mito Ennis distrugge il simbolo. Il ruolo di Amanda Conner qui si fa fondamentale, nello strizzare the Pro in un costume al limite del consentito, appagamento dei bollori di teenager arrapati più che reale rivestimento dell’eroe. La reticente eroina non rappresenta certo l’immagine convenzionale dell’eroe da imitare, sprofondata nel vizio e nell’abisso di una professione che, benché sordida, le permette di portare a casa il necessario per vivere e per sfamare il proprio figlio. L’estremizzazione di questa diseducazione è nel suo essere un personaggio estremamente sboccato, violento e vendicativo in modo malsano, come quando colpisce quasi a morte una supervillain che l’aveva colpita con un raggio di energia e poi le piscia addosso di fronte al Congresso degli Stati Uniti.

Il percorso di mutazione del supereroe si trova qui alla deriva opposta di quella del fumetto mainstream: se la crisi ha portato gli eroi Marvel e DC a un continuo potenziamento, nei primi anni del nuovo millennio, questo The Pro mette in scena un eroe più concreto nei suoi bisogni e nelle sue reali responsabilità.



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(1) Si ricordi che nessun supereroe fu arruolato per il Vietnam, la Corea e per le cosiddette “guerre coloniali” americane. Fanno eccezione due personaggi che solo in seguito diverranno eroi (o quasi): Tony “Iron Man” Stark e Frank “The Punisher” Castle.

venerdì 19 giugno 2009

LOST AT SEA

LOST AT SEA (2008, Oni Press, brossurato, 162 pagine in bianco e nero, $11.95).
Sceneggiatura e disegni di Brian Lee O’Malley.


Quello che ad una prima impressione potrebbe sembrare un manga stupido e banale su una ragazzina si rivela invece, ad una attenta lettura, qualcosa di più profondo. Se si riesce a mettere da parte alcune frasi un po’ troppo enfatiche e da telefilm adolescenziale, ci si troverà di fronte ad una storia complessa, imperniata sulla sempre più attuale tematica della ricerca personale. Tra l’altro, considerato il numero di fumetti che affrontano questa tematica è quasi dovuta una rapida considerazione: se una storia a fumetti è emblema del momento storico in cui nasce, gran parte delle storie a fumetti degli ultimi vent’anni possono venire considerate urla di una società disperata che ha ormai perso la propria identità, e che ricerca in tutti i modi possibili.

Raleigh è una ragazza di diciotto anni che, per qualche motivo, si ritrova in auto con tre compagni di scuola che conosce a malapena, Dave, Ian e Stephanie, di ritorno dalla California. Attraverso i suoi pensieri il lettore viene così a conoscenza dei momenti salienti del viaggio e della storia di Raleigh, che la ragazza dice essere il motivo della sua presenza sull’auto con i ragazzi. Raleigh è una ragazza solitaria che porta con sé il terribile peso di non avere un’anima. O almeno è quello che crede. Il viaggio con i ragazzi diviene dunque, ad un tratto, un modo per fare mente locale sulla propria vita e per cercare di colmare iquesto vuoto.

Questa assenza non è altro che l’espressione di un forte isolamento che la ragazza subisce fin dalla tenera età, quando le viene comunicato di essere “speciale”, e che in quanto tale dovrà seguire lezioni con altri ragazzi speciali. E poi il divorzio dei genitori, l’isolamento a scuola e la madre, che secondo Raleigh avrebbe venduto la sua anima in cambio del successo. A questo si aggiunge una relazione telematica a distanza con un ragazzo che vive molto lontano da lei.

Isolamento accademico. Isolamento degli affetti. Isolamento relazionale, soprattutto, la piaga sociale più sopravvalutata del mondo telematico. Ormai ammassata le une sulle altre le persone non riescono più a comunicare e rapportarsi normalmente tra loro; in molti casi, anzi, una condizione di stretta prossimità causa l’innalzamento di un muro, mentre si cerca sempre di più l’altro attraverso le strade di internet.

Nella sua opera prima Brian Lee O’Malley pone sui piatti della bilancia i due aspetti, lanciando un messaggio di apertura verso il prossimo, perché è l’unico modo di non impazzire di solitudine in una società che sta diventando sempre di più un insieme di scatole giustapposte o contenute l’una dentro l’altra, mentre una violenta forza centrifuga la frammenta, spingendo gli individui lontani gli uni dagli altri, per quanto fisicamente siano concentrati nello stesso punto. Appoggiando con evidenza un potenziamento delle relazioni sociali propriamente intese, tuttavia, O’Malley non condanna i nuovi mezzi di comunicazione poiché anche la loro risultante, allo stesso modo dei compagni di viaggio, aiuta Raleigh a colmare il proprio vuoto, a ritrovare la propria anima.

Il tutto reso con un tratto che si colloca tra la sintesi grafica dei manga e uno stile pop tipico di certa animazione (ad esempio serie come Daria o buona parte del rinnovato filone di animazione statunitense dell’emittente Cartoon Network). La pennellata di O’Malley lo rende vicino anche a certa produzione indipendente, benché affermata. Il suo stile grafico, in relazione al suo modo di intendere la tavola, inserendo di tanto in tanto splash page singole o doppie con grandi disegni e lunghi blocchi di testo svincolati dai balloon, ben si prestano a rendere la solitudine di Raleigh, il suo timore di non venire accettata.

Lost at sea è una storia in grado di sorprendere, deliziosamente narrata e arricchita da una sintesi grafica che non ne limita l’espressività. Al momento non esiste un’edizione italiana ma per chi non si fa problemi a leggere l’inglese e ad acquistare su internet (al sito della Oni Press, http://www.onipress.com ) la sua lettura è caldamente consigliata.


lunedì 15 giugno 2009

LA MIA VITA DISEGNATA MALE

LA MIA VITA DISEGNATA MALE (2009, Fusi Orari/Coconino Press, brossurato con sovracoperta, 144 pagine in bianco e nero e colore € 12).
Sceneggiatura e disegni di Gipi.


Il mondo del fumetto italiano ha qualcosa che non va, ed è tutto quello che gli sta attorno, dagli editori, ai lettori. Ma la cosa più storta che si trova attorno è una critica in buona parte asservita al sistema mediatico che decide cosa è buono e cosa no (e, dall’altro lato, una critica alla Mollica per cui tutti sono bravi, tutto è grande… tranne forse Gradimir Smudja, liquidato con due frasette di convenienza, lui che di questi tempi è uno di quelli che fanno davvero la differenza).

Il mondo del fumetto ha qualcosa che non va, dicevo, e quest’ultima fatica di Gipi ne è la prova. Ora, prima che qualcuno capisca quello che vuole e inizi a sparare cose fuori luogo, cercherò di spiegare quello che intendo. LMVDM è davvero un buon fumetto. Ha bei disegni, un bell’intreccio, ha gag divertenti, potenti grazie alla capacità narrativa di Gipi che trasforma il piccolo in grande, ha parti ad acquerello che incantano gli occhi e tutto il resto. LMVDM è un buon fumetto, ma è buono come pane e pepe. Chi l’ha letto sa a cosa mi riferisco. Chi non l’ha letto si soffermi a leggere la scena qua sotto (cliccando sulle foto verranno ingrandite).




LMVDM è buono come pane e pepe. E pane e pepe è davvero buono. Non si direbbe, ma io l’ho provato, incuriosito da questa scena, e l’ho trovato buono. Buono come può essere una fetta di pane con sopra del pepe se vi piace il pane e vi piace il pepe, se capite cosa intendo.
Gipi è un ottimo autore in grado di fare ottimi fumetti. LMVDM è un buon fumetto, ma non è Appunti per una storia di guerra, non è Questa è la stanza (che, personalmente, ho trovato folgorante nella potenza della sua semplicità), non è nemmeno lontanamente Baci dalla provincia. Eppure per la critica LMVDM è il miglior graphic novel (guai a dire fumetto, non vogliamo mica che lo si creda una cosa per bambini) del momento e il miglior lavoro di Gipi. E qui un po’, a capirci il minimo sindacale, verrebbe da incazzarsi.
Io fossi in Gipi sarei incazzato, perché penso che i suoi altri lavori siano migliori eppure non hanno avuto la stessa ricezione di quest’ultimo. Se LMVDM è buono come pane e pepe, Baci dalla provincia è un pollo arrosto con tanto di farcitura e patate. Sarà per la pubblicazione in allegato a “Internazionale” o per l’intervista di Daria Bignardi… ma mentre lo scrivo io stesso non riesco ad esserne convinto.

Detto questo è un buon fumetto, e lungi da me dire il contrario. Con una narrazione che fa la spola tra la vita dell’autore, in bianco e nero e disegnata “fintamente” male (non vorrei essere bestiale ma certe scene notturne disegnate a penna mi fanno pensare istintivamente ad alcuni disegni a penna realizzati da Josè Muñoz sulle pagine della rivista francese Á Suivre), e una storia di pirati in cui vediamo coinvolto una sua sorta di alter ego, acquerellata a colori. È la storia di una malattia attorno a cui ruota la storia di una vita nei cui interstizi si inserisce una storia di pirati (ok, gli intermezzi pirateschi fanno un sacco Watchmen, ho provato a tenerlo dentro fino ad ora ma alla fine mi è scappato, sarò banale ma tant’è). Così, dall’anamnesi condotta da una lunga serie di medici, prende il via un’operazione di scavo pluridirezionale: la prima verso una cura per la malattia; la seconda verso la storia personale dell’autore; la terza verso una visione della società circostante che, per quanto “crudele e inospitale”, alla fine dimostra di avere ancora qualcosa per cui val la pena di tenere alta la testa, i piedi piantati e andare avanti. La descrizione della società passa, dunque, dalla narrazione di chi quella società l’ha vissuta; dalla sua esperienza personale si riesce così a trarre frammenti che, affiancati a quelli di altri autori (non necessariamente solo autori di fumetto, ovviamente), aiutano a rimontare una realtà. Microstoria autobiografica che, rimontata assieme alle altre microstorie, crea una macrostoria sociale.

giovedì 11 giugno 2009

VOLUNTEER

VOLUNTEER (2008, Planeta DeAgostini, cartonato, 172 pagine a colori, € 16).
Sceneggiatura di Muriel Sevestre, disegni di Benoît Springer.


Chi è Volunteer Flee?
Orfana, ex ragazza difficili, buttafuori del Vibe, un night club di New York, con mansioni extra per arrotondare. Prima del suo decimo compleanno, tuttavia, Volunteer non ricorda nulla di sé, della propria famiglia o della propria vita.
E chi è Ruby? Chi è Diamond? Chi è Prometheus?
Le giornate di Volunteer trascorrono normalmente come quelle di ogni persona quando, a un certo punto, viene innescata una catena di eventi che inizia a far tornare a galla alla ragazza alcuni flash del proprio passato; è da quel momento che le persone attorno a lei cominciano a morire, alcune con il collo lacerato da un morso.
Muriel Sevestre riesce nella realizzazione della prova tangibile che è ancora possibile scrivere di vampiri in modo originale, nonostante la materia sia stata esplorata in lungo e in largo, raggiungendo una struttura praticamente codificata. Poi è arrivato Twilight e ognuno si è sentito legittimato a dire sull’argomento ogni genere di stronzata gli venisse in mente, senza curarsi del fatto di abbattere, assieme ai cliché, alcuni dei tratti fondamentali del genere, primo tra tutti il rapporto tra i vampiri e il sole. Sevestre ci regala così una storia avvincente e ben scritta, con i colpi di scena al momento giusto e la tensione che sale verso un finale sospeso, non propriamente uno scioglimento.
Questo è reso possibile anche dallo stile di Benoît Springer, autore dalla formidabile sintesi grafica, un po’ francesce, un po’ americana, un po’ Disney ultimo periodo, un po’ Bonelli ultimo periodo, a tratti Ben Templesmith, a tratti Mike Mignola, a tratti Adam Pollina; uno stile che oscilla tra l’essenziale e il dettagliato, tra il sintetico e l’espressivo.

Volunteer è originale, e riuscire ad essere originali parlando di vampiri non è cosa facile. Ma questo perché l’aspetto vampirico è solo una parte della narrazione, la quale, benché scatenante, non riveste un ruolo fondamentale per lo sviluppo. Se l’altra parte fosse stata impersonata da gangster o alieni il risultato sarebbe stato probabilmente il medesimo.
La narrazione procede lungo due binari, uno presente che racconta di Volunteer sulle tracce della misteriosa Ruby, giovane donna dal volto deturpato da una bruciatura; l’altro è un percorso di scavo a ritroso nel tempo che ci mostra i ricordi delle due ragazze da bambine, svelandoci il segreto dell’odio di Ruby e l’antico accordo di vendetta tra due giovani amanti.
Ancora una volta possiamo vedere come la tensione per il raggiungimento del diverso sia utilizzata come espediente per compiere una ricerca interiore del tutto personale, che sia un’indagine sulla propria attuale condizione, mossa dalla necessità di una scelta di fronte a un bivio, o un’operazione di scavo nel proprio passato. Ancora una volta possiamo vedere come la tematica del sovrannaturale si presti a fare da secondo binario, o quantomeno da contesto, all’interno del quale recintare una ricerca che muove i suoi passi da un processo di assimilazione o di differenziazione dell’altro. Quella dell’identità, del resto, è una tematica forte a partire dai primi del Novecento, che nel romanzo muove, come si era già detto in precedenza, dalla crisi del pilastro teologico. L’utilizzo di tematiche sovrannaturali o fantastiche, dunque, o ancora legate ad un certo tipo di tradizione popolare/letteraria/mitologica, come in questo caso, sembra voler suggerire una ricostruzione dell’io che parte da dinamiche differenti e ben più insolite di quelle da cui lo si faceva muovere in origine.
Proseguendo lungo questa scia, il fumetto degli anni compresi tra la fine dei Novanta e il primo decennio del Duemila, si interessa delle problematiche identitarie rendendole il fulcro di molte opere, specialmente per quanto riguarda la produzione francese; ciò è dovuto, con molta probabilità, alla crisi di un sistema di fiducia nei confronti di una classe politica dalle numerose scelte errate, unitamente alla condizione frammentata di una società multiculturale relativamente giovane. Autori come Enki Bilal, Marjane Satrapi e David B., per citare solo alcuni dei più conosciuti, hanno fatto di questo punto il centro attorno a cui ruotano le loro narrazioni. Il lavoro di Sevestre e Springer si colloca lungo questa direzione, offrendoci una storia di scelte, giuste o sbagliate, di luci e ombre laddove la verità non è mai qualcosa di assoluto.

lunedì 8 giugno 2009

QUEST’UOMO O… QUESTO CANDIDATO?!

QUEST’UOMO O… QUESTO CANDIDATO?! (dic. 2008 The Amazing Spider-Man 573; edizione italiana 2009, Panini comics, 8 pagine a colori, in Spider-Man 510, € 3). Sceneggiatura di Mark Waid, disegni di Patrick Oliffe.


Alla fine di Maggio il quindicinale di Marvel/Panini comics si rende un lampante esempio di come politica e fumetto siano profondamente intrecciati l’un l’altro.
Se
il fumetto nasce, tra le altre cose, anche per una forte volontà politica, nel lontano 1894 statunitense, è negli anni a seguire che il loro rapporto si stringe sempre più. Eclatanti furono episodi quali il rifiuto degli eroi Marvel e DC alla partenza per il Vietnam, la denuncia del Congreso sulle pagine de El Eternauta o la corsa politica di Pogo Possum sulle omonime strisce giornaliere. Queste per citarne solo alcune, ma si potrebbe di molto allungare la lista.
Ai giorni nostri, tuttavia, i fumetti – nel caso specifico i comic books – riescono ad andare oltre ad una fase analitica e critica, e il caso più vicino, un caso ben più forte del team-up tra Spider-Man e Barack Obama, è quello presentato in Lo there Shall Come, this Man… this Candidate! (il cui titolo fa evidentemente riferimento allo storico Fantastic Four numero 51, This Man… this Monster!). Tra il finale di Nuovi modi per morire, che si chiude con qualche rivolgimento sia per Spider-Man che per il suo alter-ego, una storiella ipotetica totalmente inutile (del resto è scritta da Tom DeFalco), e l’ennesima puntata dei Thunderbolts di Gage, di fatto inutile se non per il suo essere araldo di Dark Avengers, troviamo questa piccola perla.
Protagonista della storia è Stephen Colbert, comico satirico, che Max Brighel nelle note definisce “il Daniele Luttazzi d’Oltreoceano”, nonché candidato alle elezioni presidenziali statunitensi che ormai sappiamo bene essere state vinte da Obama.

Forse per la sua verve comica, forse per una partecipazione di Joe Quesada, editor in chief di Marvel Comics, ad una puntata di Colbert Report, sta di fatto che la casa delle idee ha deciso di sostenere il candidato Colbert, snobbato sia dai democratici che dai repubblicani, portando avanti sui propri albi una campagna elettorale ormai di fatto morta da tempo.

La storia prende via da un comizio autunnale del conduttore/candidato a Union Square Park, comizio a cui partecipa pochissima gente disinteressata, dal momento che “nessuno – dice J.J. Jameson – sostiene mai un cavallo perdente”. New York, infatti, ha praticamente voltato le spalle a Colbert già dal novembre 2007. Epica e fortemente simbolica è la scena dell’abbandono della candidatura, in una splash page che ricalca il momento in cui Peter Parker decise di abbandonare la carriera di supereroe: Colbert, di spalle, a testa bassa, esce da un vicolo dopo aver gettato nella spazzatura la giacca e la cravatta; “…mai più Stephen Colbert!”.
Ma al conduttore viene data un’ultima possibilità di dimostrare il proprio eroismo, quando incappa in una lotta tra Spider-Man e Grizzly, che crede essere stato inviato per lui. Dopo una lotta estenuante tra i due superindividui è Colbert ad avere la meglio, atterrando Grizzly con una grossa aquila di pietra, rubando la scena e anche la topica battuta “da un grande potere derivano grandi responsabilità!”. L’accaduto dona a Colbert nuova forza e nuove motivazioni, convincendolo così a recuperare il proprio “costume” e a ritornare sotto i riflettori di una sfida elettorale che, come ben sappiamo, non vincerà.
Nonostante tutto, quindi, la Marvel Comics sente di appoggiare – come spesso succede – il terzo, quello che nessuno vuole, e che magari sta un po’ sulle palle, regolarizzandola tra le sue fila in un modo potente, ben più di quello che farà in seguito con il Presidente. La figura di Stephen Colbert esce quindi mitizzata (dacché entra a far parte del mito) quando nell’ultima pagina se ne va volteggiando con Spider-Man, mentre la didascalia ci riporta i suoi pensieri “E fu così che in quel cataclismico giorno, io – Stephen Colbert – combattei con il tenebroso orso del terrore e ne emersi con un coraggio da eroe! E quel giorno… entrai nell’universo Marvel!”. Excelsior!

Una scelta di questo tipo ci porta a considerare il sostanziale rapporto tra il mondo dei fumetti e il mondo reale. Da una parte la presenza di un personaggio pubblico di tale spessore, e in relazione ad un evento di grande importanza per un paese che esce in ginocchio dall’amministrazione di G.W. Bush, porta ad un innalzamento del livello di realtà non solo della storia ma, in un qualche modo, dell’intero universo Marvel, che risulta sempre meno parallelo e sempre più sovrapposto al nostro. Dall’altra il fatto che Colbert, parlando dei probabili mandanti di un attacco che crede rivolto a sé, citi il CDN (Comitato Democratico Nazionale) accanto a Kingpin, Teschio Rosso e Dr. Destino, rende i villain, e di conseguenza tutti i personaggi Marvel, qualcosa di tangibile per la società, stringendo un nodo, quello che unisce le due realtà, che da diversi anni era del tutto allentato e che solo negli ultimi tempi sta ritrovando forza.

giovedì 4 giugno 2009

ULTIMATES 3

ULTIMATES 3 1-4 (2008; edizione italiana 2009, Panini comics, 48 pagine a colori, € 2,80).
Sceneggiatura di Jeph Loeb, disegni di Joe Madureira. Prologo: Sceneggiatura di C.B. Cebulski, disegni di Travis Charest.


Ormai prossimi all’uscita dell’ultima parte di Sesso, bugie e dvd diamo uno sguardo a quella che viene unanimemente considerata la serie ultimate per eccellenza.
L’unica serie ultimate a discostarsi della sua matrice nell’universo Marvel tradizionale si avvia, in questa terza stagione, ad un violento processo di retcon, composto che indica una rettifica nella continuità, ossia, per farla breve, un livellamento delle trame a quelle dell’universo tradizionale. Fino ad ora era l’unica testata scampata, merito del sapiente team creativo Millar-Hitch, la prova tangibile che quando il team è ben oliato non c’è niente che lo tenga (come stanno dimostrando attualmente sulle pagine di Fantastic Four).
Ma torniamo a bomba su Ultimates. La terza stagione ha creato grande attesa sia negli States che nel nostro paese, anche e soprattutto una volta trapelate le prime informazioni riguardo al team creativo che si sarebbe sostituito ai padri fondatori, e chiudendo un occhio sulla sua brevità (solo cinque capitoli).
Loeb e Madureira, dunque. Il primo è ormai un veterano del fumetto (e non solo), che ci ha regalato storie di grande peso ma anche ciofeche colossali; come dimenticare il nauseabondo Onslaught Reborn? Una storia talmente inutile che per scrivere cinque capitoli c’è voluto, a Loeb, un’anno e tre mesi; da dimenticare se non per la copertina del compianto Michael Turner. Ma qui si divaga.
Madureira, personalmente, è un autore che ho sempre apprezzato. Mi incuriosiva il suo stile che mescolava quello classico del fumetto supereroistico a uno più propriamente nipponico ma filtrato non tanto dal manga quanto piuttosto dai videogiochi.
Ecco, le premesse non sembravano male. E con tali promesse ci si avviò alla lettura di Sesso, bugie e dvd. Prima però la Casa delle idee decise di donarci il gioiello di tre pagine che fu Parole più vere… (Truer words…, da Ultimates saga 1), di Cebulski e Charest, quattro pagine in cui un autoironico Tony Stark anticipò di due mesi ai lettori USA il volto della nuova squadra.
Già dal primo numero si capiva che Madureira aveva qualcosa che non andava, che le sue matite erano, in certi momenti, troppo esagerate. Nonostante un’incertezza di fondo, alla fine del primo capitolo l’idea che mi ero fatto era che ci fosse speranza; certo non era più il vecchio Ultimates, né per la storia, né per la narrazione, né tantomeno per i dialoghi o lo stile grafico puramente cinematografico. Loeb ci offre un ottimo approfondimento e sviluppo dei personaggi, a partire, sopra tutti, da un Occhio di falco che è ormai allo sbando dopo lo sterminio della propria famiglia, molto più vicino ad un villain come Bullseye (tra l’altro sulla maschera sfoggia un bersaglio rosso) che al vecchio arciere errolflynniano, regolarizzato negli Ultimates al fianco dei quali la lotta al crimine diventa una disinteressata corsa contro la morte. Pollice verso, invece, per Thor, sanguinario e tamarro, ben lontano dal no-global compagnone che ci aveva regalato Millar.
Ma il problema è arrivato dopo, se a fatica scegliamo di chiudere un occhio sull’omicidio di Scarlet. Loeb è l’artefice dell’ultimate catastrophe, perché questa serie è decisamente sprofondata nell’abisso della banalità e della retcon. Magneto recupera il cadavere di Scarlet come dopo la sua morte alla fine di House of M; nel frattempo il signore del magnetismo ha iniziato ad indossare un costume uguale a quello delle serie regolari (le mutande sopra i pantaloni!!!). Quicksilver che si unisce alla confraternita. Pyro tra i cattivi (lo avevamo lasciato nella squadra mutante capitanata da Alfiere e poi, senza niente che lasci intendere una sua conversione al lato oscuro dei poteri mutanti ce lo troviamo tra i cattivi). Wolverine con gli Ultimates (anche nell’universo ultimate Wolverine inizia ad essere ovunque). Valchiria e quant’altro.
La cosa più assurda e stupida sono copie robot degli Ultimates. Robot infiltrati nella squadra. L’ha fatto davvero? Gliel’hanno lasciato fare davvero? In contemporanea con l’invasione Skrull nell’universo Marvel ufficiale Loeb ha davvero proposto e ottenuto di chiudere Ultimates con uno scontro (suppongo, nel prossimo e ultimo – grazie – numero) con copie robot?!? FOLLIA. Solo questo basterebbe per dichiararne l’infermità mentale quantomeno parziale. Per non parlare della pochezza dei dialoghi.
Qualche mese fa mi è capitato di leggere Batman – Vittoria oscura, una vecchia storia scritta da Loeb nel 2001 (e magistralmente disegnata da Tim Sale) e l’ho trovato a dir poco stupendo, sia nell’orchestrazione della trama che nei dialoghi. Poi questo.

Altra carenza forte della serie viene ad essere la sua mancata aderenza alla situazione storica, cosa che, nelle due stagioni sceneggiate da Mark Millar rappresentava un punto di forza. Così come per Civil war, gli Ultimates di Millar offrivano un doppio livello di lettura, permettendo così di godere di una storia di supereroi e, per il lettore più avveduto, di cogliere riferimenti all’attuale situazione statunitense e internazionale, caricando così la storia della propria visione degli eventi e della propria opinione in merito.Tutto questo nella terza stagione di Ultimates manca, lasciandoci così tra le mani cinque albi che altro non sono se non un picchia duro a scorrimento orizzontale che risente profondamente dell’ultima cinematografia legata al mondo del fumetto; mi riferisco principalmente a film come X-Men 3 o Wolverine, in cui il carico di personaggi e situazioni messo in gioco è talmente esagerato che niente al di là di una banale e lineare trama principale viene sviluppato a dovere.
Che l’intento di Loeb fosse quello di farsi beffa di questi film? Sinceramente ne dubito.
Le storie del mese prossimo dell’universo ultimate daranno finalmente l’avvio alla saga Ultimatum che ci promette una rivoluzione delle testate, sia nei titoli che nei personaggi e, si spera, anche nei contenuti.
Chapeau all’accortezza e all’onestà di Bendis e Millar nel riconoscere una simile necessità che spero faccia piazza pulita di tutte le porcate degli ultimi mesi e ci renda un universo ultimate che sia nuovo, genuino e, soprattutto, originale e contemporaneo.

lunedì 1 giugno 2009

LILITH

LILITH nr.1 Il Segno del triacanto (2008, semestrale, Sergio Bonelli Editore, 130 pagine in bianco, nero e toni di grigio, € 3,50). Sceneggiatura e disegni di Luca Enoch.


A ridosso dell’uscita del secondo numero parliamo della nuova fatica di Luca Enoch, autore che personalmente ho sempre molto apprezzato sin dai tempi di Spray Liz, sia per il tratto che per il modo di raccontare.
Considerata la sua produzione fino ad ora, se le premesse del primo volume dovessero eguagliarsi, o addirittura andare oltre le aspettative, allora potremmo dire di trovarci davanti ad un superamento.

A causa di un parassita di proporzioni storiche chiamato Triacanto la popolazione umana del futuro è stata decimata e ai superstiti è proibito vivere in superficie. Tra flashback del futuro e azioni nel passato veniamo così a conoscenza di Lyca, giovane ragazza scelta tra i sopravvissuti per ricoprire il ruolo di cronoagente, viaggiando nel passato per estirpare il Triacanto dai suoi portatori.

Il primo viaggio di Lyca la porta nell’Anatolia dei tempi mitici, all’epoca della guerra di Wilusa, detta anche Wilios, antico nome che i greci attribuivano a Ilio, Troia. Enoch gioca con la materia classica manipolandola a suo piacimento, ma pur sempre con un occhio di riguardo (a partire dall’uso di denominazioni antiche in riferimento a luoghi e popoli). Lungo il corso della narrazione l’autore ci ripropone momenti noti dell’opera omerica, come l’incontro/scontro tra Achille e Agamennone, la morte di Patroclo per mano di Ettore, l’arrivo del cavallo (che è qui raffigurato non come dono ai troiani ma come un’enorme torre da assedio dal muso di cavallo). I prestiti omerici vengono inquadrati all’interno della storia della missione di Lyca di scovare il portatore del Triacanto. Una missione che, teoricamente, non dovrebbe avere ripercussioni sul passato, ma che invece modifica leggermente il corso degli eventi offrendo a Enoch la possibilità di fornire al suo lettore un’interpretazione personale di una materia la cui unica fonte “popolare” è quella dell’epica omerica.


Lilith
rappresenta, a mio parere, un’ottima prova di come il medium fumetto possa agire lungo due importanti direzioni. La prima è la divulgazione di una materia che talvolta passa in secondo piano, se non addirittura inosservata al lettore medio, che è quella dell’epica classica greca. La seconda è il servirsi di una solida base culturale preesistente per produrre altra cultura, veicolata al lettore nella forma del fumetto. Certo, il senso del messaggio enochiano ancora non è ben chiaro alla fine del primo numero, sepolto al di sotto di una storia avvincente e ben concepita, ma tuttavia non dubito, conoscendone il lavoro, che sarà solo questione di qualche uscita e il senso dell’opera si paleserà. All’inizio, banalmente, pensavo che il Triacanto si manifestasse nelle persone malvagie che fossero causa di situazioni storiche emblematiche della corruzione del genere umano, come la guerra o, buttando un occhio all’anteprima del numero successivo, la tratta degli schiavi. Nel corso della narrazione, tuttavia, si dice che il Triacanto può infestare anche persone buone (pp. 110-112), e questo invalida la mia teoria.

Inoltre la guida di Lyca nei vari periodi, una specie di pantera parlante con le orecchie da cane, fa riferimento ai misteriosi Cardi, nemici da cui la protagonista dovrà ben guardarsi, che per ora non si sono ancora rivelati.

La serie, del resto, è ai nastri di partenza e solo il suo sviluppo, ripeto, ci rivelerà dove Enoch voglia andare a parare. Forse il secondo numero, disponibile dal 13 di Giugno, potrebbe aiutare a fare un po’ più luce sull’argomento.

In chiusura non posso che azzardare un collegamento e una riflessione. A quanto pare il motivo scatenante di Lilith è viaggiare nel passato per salvare il futuro (ossia il proprio presente). Non ho potuto fare a meno di ricordare quanto si dice nel primo arco narrativo della serie americana Midnighter (spin-off di The Authority), scritta da Garth Ennis e disegnata da Chris Sprouse. Quello che ho sempre considerato il nodo della storia è una frase detta al vigilante da un membro della polizia temporale nell’ultima pagina del quarto numero: «changin’ what already happened don’t work; mosta the time it’s just idiots too lazy to change what’s comin’ up, instead». Modificare il passato per cambiare il presente, quindi, non è altro che un modo per distogliere lo sguardo dai problemi attuali.
E allora cosa mai vorrà dire Enoch? Il suo messaggio sarà uguale a quello di Ennis e Lilith è l’ennesima adunata affinché la società apra gli occhi, o sarà qualcosa di diverso?