FLASHBACKS (dic. 2008 The Amazing Spider-Man 574; edizione italiana 2009, Panini comics, 22 pagine a colori, in Spider-Man 511, € 3).
Sceneggiatura di Marc Guggenheimn, disegni di Barry Kitson e Mark Farmer.
Fumetto e guerra. Intrecciati da sempre come due amanti, ormai presi in un vortice di ritrosia. Finchè la guerra è stata considerata giusta dall’opinione pubblica il fumetto supereroistico ha risposto appoggiandola e sostenendo i soldati al fronte. Classico, ormai, è l’esempio della seconda guerra mondiale, in cui tutti gli eroi di tutti gli editori di comic books vennero impiegati.
La guerra successiva fu quella in Vietnam. In essa l’opinione pubblica, non solo americana bensì mondiale, vide una manovra imperialista degli Stati Uniti, finalizzata al puro arricchimento personale. Il baluardo della democrazia internazionale iniziava a dare i primi segni di cedimento; gli eroi decisero di voltare le spalle e non prendervi parte.
Fin dal lontano Aprile 1970 (con il racconto The Schemer, sulle pagine di Amazing Spider-Man 83) il volto Marvel della guerra fu incarnato da Eugene “Flash” Thompson. Là lo si vedeva partire volontario per servire il proprio paese in Vietnam, ora, trentotto anni dopo, lo si vede di ritorno dall’Iraq. Ma se dal Vietnam il buon Flash tornò fidanzato e con un treno di problemi, nonché con la necessità di una rettifica di una ventina d’anni dopo la sua partenza(1), dall’Iraq vedremo che tornerà con problemi ben più grossi.
La storia di per sé è discreta. Flash, a riposo in un ospedale da campo a Landstuhl, in Germania, viene raggiunto dal Generale Fazekas, desideroso di intervistarlo per conferirgli una medaglia d’onore. Viene ricostruita così la vita di Flash in alcune dei suoi momenti salienti; un po’ fa sorridere (e un po’ no) pensare che il giovane fosse nell’archivio dell’FBI da quando il Dottor Destino lo rapì, scambiandolo per l’Uomo Ragno. Inizia poi la rievocazione dell’ultima operazione militare, una missione, ricorda il ragazzo, “isola e setaccia” nella città di Mosul, una missione “standard” che “serve a sgombrare il campo”. Il carro, tuttavia, viene colpito e la squadra viene presa d’assalto dai “ribelli”. In seguito ad un’esplosione un compagno di Flash rimane sepolto sotto le macerie di un muro crollato, così il ragazzo fa di tutto per proteggerlo e difenderlo, fronteggiando da solo sei nemici. La sua scelta, tuttavia, per quanto eroica, gli costerà un caro prezzo: lo scontro con i “ribelli” e i lunghi tempi d’attesa tra la liberazione e l’arrivo dei soccorsi costeranno a Flash l’uso delle gambe, che vediamo, nell’ultima pagina, essergli state amputate. Avrebbe potuto correre subito a chiamare rinforzi, ma così il suo compagno sarebbe probabilmente stato ucciso dal nemico. E allora ecco che, ancora una volta, in situazioni tragiche come la guerra o le catastrofi, quelle reali in cui i supereroi non possono realmente intervenire, che è l’uomo comune a farsi eroe, in un tentativo di emulazione di un supereroismo bandiera che ne sia ispirazione.
Devo riconoscere di essere stato shockato dal finale di questa storia. Flash Thompson è uno di quei comprimari che negli anni si è scavato un posto nel cuore dei lettori, passando dal suo essere bullo fastidioso e vessatore a giovane responsabile e consapevole. Eppure alla Marvel forse non deve stare troppo simpatico, visti gli ultimi rivolgimenti: al soldo di Osborn, poi in coma per diverso tempo, poi di nuovo bullo nel periodo strettamente post-coma. E ora questo. Il trattamento riservato a Flash da Marc Guggenheim è spietato, dalla vignetta che ironizza sul suo soprannome (che niente ha a che fare con il football) al motivo della sua degenza nell’ospedale da campo. Ok che nell’universo Marvel problematiche di questo tipo vengono generalmente risolte al primo cambio di team creativo (tremo solo al pensiero che qualcuno proponga qualcosa del tipo “hey perché non iniettiamo a Flash il siero di Lizard; riavrà le gambe e poi….”).
Per quanto volontario Flash non riesce a non farmi pensare alla polemica avanzata da tanti (ma al momento, sinceramente, il primo nome che mi viene in mente è quello di Michael Moore) sui continui invii di giovani americani in Iraq da parte dell’amministrazione Bush. Centinaia di migliaia di ragazzi mandati a morire quando avrebbero potuto meglio servire il proprio paese in patria; ad esempio penso a New Orleans e alle sue problematiche di ordine civile ed edile nel post-Katrina. Volontario o meno, Flash incarna quei giovani il cui futuro è stato troncato o mutilato da una guerra che, di fatto, se sia giusta o meno non è dato saperlo.
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(1) Dal momento che il tempo nell’universo Marvel scorre diversamente dal tempo nel mondo reale, per cui all’incirca quattro anni di storie rappresentano un anno di tempo “reale” (viceversa avremmo ormai eroi datati), il periodo vietnamita di Flash è stato giustificato in un modo altro dal conflitto, pur mantenendo gli aspetti che ne sono derivati (la fidanzata Sha-shan e le varie problematiche con la famglia).
D’altra parte forse nemmeno il bullo che un tempo era Flash avrebbe voluto servire il proprio paese in un momento così controverso della propria storia ed era difficile da mandare giù il fatto che un fan di Spider-man come lui, per quanto patriottico, potesse prendere parte ad una guerra così sbagliata.
Sceneggiatura di Marc Guggenheimn, disegni di Barry Kitson e Mark Farmer.
Fumetto e guerra. Intrecciati da sempre come due amanti, ormai presi in un vortice di ritrosia. Finchè la guerra è stata considerata giusta dall’opinione pubblica il fumetto supereroistico ha risposto appoggiandola e sostenendo i soldati al fronte. Classico, ormai, è l’esempio della seconda guerra mondiale, in cui tutti gli eroi di tutti gli editori di comic books vennero impiegati.
La guerra successiva fu quella in Vietnam. In essa l’opinione pubblica, non solo americana bensì mondiale, vide una manovra imperialista degli Stati Uniti, finalizzata al puro arricchimento personale. Il baluardo della democrazia internazionale iniziava a dare i primi segni di cedimento; gli eroi decisero di voltare le spalle e non prendervi parte.
Fin dal lontano Aprile 1970 (con il racconto The Schemer, sulle pagine di Amazing Spider-Man 83) il volto Marvel della guerra fu incarnato da Eugene “Flash” Thompson. Là lo si vedeva partire volontario per servire il proprio paese in Vietnam, ora, trentotto anni dopo, lo si vede di ritorno dall’Iraq. Ma se dal Vietnam il buon Flash tornò fidanzato e con un treno di problemi, nonché con la necessità di una rettifica di una ventina d’anni dopo la sua partenza(1), dall’Iraq vedremo che tornerà con problemi ben più grossi.
La storia di per sé è discreta. Flash, a riposo in un ospedale da campo a Landstuhl, in Germania, viene raggiunto dal Generale Fazekas, desideroso di intervistarlo per conferirgli una medaglia d’onore. Viene ricostruita così la vita di Flash in alcune dei suoi momenti salienti; un po’ fa sorridere (e un po’ no) pensare che il giovane fosse nell’archivio dell’FBI da quando il Dottor Destino lo rapì, scambiandolo per l’Uomo Ragno. Inizia poi la rievocazione dell’ultima operazione militare, una missione, ricorda il ragazzo, “isola e setaccia” nella città di Mosul, una missione “standard” che “serve a sgombrare il campo”. Il carro, tuttavia, viene colpito e la squadra viene presa d’assalto dai “ribelli”. In seguito ad un’esplosione un compagno di Flash rimane sepolto sotto le macerie di un muro crollato, così il ragazzo fa di tutto per proteggerlo e difenderlo, fronteggiando da solo sei nemici. La sua scelta, tuttavia, per quanto eroica, gli costerà un caro prezzo: lo scontro con i “ribelli” e i lunghi tempi d’attesa tra la liberazione e l’arrivo dei soccorsi costeranno a Flash l’uso delle gambe, che vediamo, nell’ultima pagina, essergli state amputate. Avrebbe potuto correre subito a chiamare rinforzi, ma così il suo compagno sarebbe probabilmente stato ucciso dal nemico. E allora ecco che, ancora una volta, in situazioni tragiche come la guerra o le catastrofi, quelle reali in cui i supereroi non possono realmente intervenire, che è l’uomo comune a farsi eroe, in un tentativo di emulazione di un supereroismo bandiera che ne sia ispirazione.
Devo riconoscere di essere stato shockato dal finale di questa storia. Flash Thompson è uno di quei comprimari che negli anni si è scavato un posto nel cuore dei lettori, passando dal suo essere bullo fastidioso e vessatore a giovane responsabile e consapevole. Eppure alla Marvel forse non deve stare troppo simpatico, visti gli ultimi rivolgimenti: al soldo di Osborn, poi in coma per diverso tempo, poi di nuovo bullo nel periodo strettamente post-coma. E ora questo. Il trattamento riservato a Flash da Marc Guggenheim è spietato, dalla vignetta che ironizza sul suo soprannome (che niente ha a che fare con il football) al motivo della sua degenza nell’ospedale da campo. Ok che nell’universo Marvel problematiche di questo tipo vengono generalmente risolte al primo cambio di team creativo (tremo solo al pensiero che qualcuno proponga qualcosa del tipo “hey perché non iniettiamo a Flash il siero di Lizard; riavrà le gambe e poi….”).
Per quanto volontario Flash non riesce a non farmi pensare alla polemica avanzata da tanti (ma al momento, sinceramente, il primo nome che mi viene in mente è quello di Michael Moore) sui continui invii di giovani americani in Iraq da parte dell’amministrazione Bush. Centinaia di migliaia di ragazzi mandati a morire quando avrebbero potuto meglio servire il proprio paese in patria; ad esempio penso a New Orleans e alle sue problematiche di ordine civile ed edile nel post-Katrina. Volontario o meno, Flash incarna quei giovani il cui futuro è stato troncato o mutilato da una guerra che, di fatto, se sia giusta o meno non è dato saperlo.
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(1) Dal momento che il tempo nell’universo Marvel scorre diversamente dal tempo nel mondo reale, per cui all’incirca quattro anni di storie rappresentano un anno di tempo “reale” (viceversa avremmo ormai eroi datati), il periodo vietnamita di Flash è stato giustificato in un modo altro dal conflitto, pur mantenendo gli aspetti che ne sono derivati (la fidanzata Sha-shan e le varie problematiche con la famglia).
D’altra parte forse nemmeno il bullo che un tempo era Flash avrebbe voluto servire il proprio paese in un momento così controverso della propria storia ed era difficile da mandare giù il fatto che un fan di Spider-man come lui, per quanto patriottico, potesse prendere parte ad una guerra così sbagliata.
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