UNKNOWN SOLDIER TP 1 – Haunted House (2008-2009, DC Comics/Vertigo, 144 pagine a colori, $ 9.99).
Sceneggiatura di Joshua Dysart, disegni di Alberto Ponticelli.
Negli anni Cinquanta-Sessanta gli Stati Uniti vedono fiorire una fitta produzione di fumetto bellico. Le motivazioni sono tra le più varie, e vanno dalla volontà di esorcizzare gli orrori del secondo conflitto mondiale, all’universale desiderio di ammenda e denuncia del sistema della guerra.
Di spicco, per tematiche trattate, argomentazioni narrative e prestigio degli autori furono testate come Two Fisted Tales o Frontline Combat, edite dalla E.C. Comics di William Gaines, sulle cui pagine situazioni belliche di tutte le epoche divenivano strumento di contestazione alla guerra, gioco privato di un potere che si sporca le mani solo indirettamente, e di proclamazione dell’uguaglianza dei popoli.
Le major del fumetto americano, che durante la seconda guerra mondiale avevano fatto fortuna il nuovo mito del supereroe, filtravano già parte di questi contenuti di derivazione bellica (la mostruosità, il terrore della bomba e delle sue conseguenze, una visione efferata della violenza) all’interno delle testate horror che tuttavia il Comics Code già aveva imbrigliato ad una produzione “meno deviante” per i giovani.
Sul fronte supereroistico, il Captain America di casa Marvel, unica figura strettamente legata alla guerra, vede un decennio (dagli anni Cinquanta fino al rilancio sulle pagine di The Avengers #4 del marzo 1964) molto poco fortunato; in casa DC tutto tace.
Col passare del tempo la guerra verrà messa da parte in favore delle sue conseguenze: lo spionaggio, la guerra fredda, la tensione verso un avversario presente ma al contempo assente, e le sue derivazioni: le esplorazioni spaziali, la corsa agli armamenti.
Poi, nel 1966, comparve il primo Unknown Soldier targato DC, un agente dell’intelligence statunitense, sul numero 168 di Our Army at Work (di Robert Kanigher e Joe Kubert), in una storia di Sgt. Rock dal titolo I Knew the Unknown Soldier. La storia era ancora una volta ambientata durante la seconda guerra mondiale.
Una versione Vertigo realizzata come miniserie da Garth Ennis nel 1997 (dopo un’altra miniserie degli anni ottanta), trasportava il Soldato alla contemporaneità, in un’avventura metropolitana che lo vedeva braccato dalla CIA, mentre questi cercava un suo sostituto.
2008. A sette anni dall’11/9, quando ancora il mondo guarda al medio oriente e l’America porta in viso i segni dell’attacco alle Twin Towers, il nuovo Unknown Soldier di Joshua Dysart e Alberto Ponticelli scarta con classe l’idea di una storia a fumetti di ambientazione afghano-iracheno troppo di comodo (e con tutta probabilità anche troppo recente, con tutto ciò che questo comporta) per puntare l’attenzione sull’inesauribile guerra civile ugandese.
Lwanga Moses è un medico di successo ugandese trasferitosi negli USA da bambino assieme alla famiglia, che si divide tra il suo lavoro di medico nelle zone di guerra e il suo ruolo di attivista nei paesi ricchi. La sua visione di risoluzione del conflitto ugandese passa per la non violenza e la sola resistenza africana (“african must change Africa, and they must do it without violence”). Di fatto però viene meno ad entrambi i pilastri del suo ragionamento nel momento in cui cede alla “possessione” dello spirito del Soldato; sarà proprio lui ad imbastire, sulla base di questo nuovo vigore selvaggio, la guerra di un uomo solo contro un esercito letale (in quanto composto da baby soldati), lui che, poi, di fatto, per quanto forti possa sentire le proprie radici, è più americano che ugandese.
La guerra raccontata da Dysart è quella vera, tangibile, sporca bastarda, spietata come tutte le altre guerre. Una narrazione che prende piede da un’attenta documentazione su luoghi, usanze e fatti di cronaca, per ritrarre un’Uganda in cui la guerra è all’ordine del giorno non solo degli adulti; non aggiungo di più in merito ma rimando al blog dello sceneggiatore per ammirare il puntuale e completo lavoro di documentazione che sta alla base di ogni episodio, corredato di notizie e di fotografie, finalizzati ad una resa verosimilie (per quanto in un’opera di finzione) della situazione socio-politica ugandese. In Haunted House Dysart punta il dito fin dall’inizio sul problema dei bambini soldato, bambini che imbracciano fucili verso la morte o verso una sopravvivenza che cambierà per sempre la loro vita.
Dalla narrazione di Dysart la guerra sembra assumere le fattezze di un loop di ritorsioni di una parte sull’altra; la reazione di Lwanga all’attacco di Acholiland da parte dei baby soldati dell’L.R.A. (Lord’s Resistance Army) è causa di una nuova reazione nel momento in cui l’one-man-army lascia il villaggio; guarda caso, poi, la reazione – così come la guerra stessa del resto – cade sempre sugli innocenti.
La guerra porta altra guerra. La violenza porta altra violenza. “Violence answered with violence… there’s no hope in that. No end in it” dice verso l’inizio della narrazione proprio Lwanga, al suo arrivo in Uganda. È un loop selvaggio al quale la società contemporanea non è ancora riuscita a trovare una soluzione che non passi per la sconfitta di una delle due parti (sconfitta che, tuttavia, prima o poi è destinata a scatenare un sentimento revanchista e ad innescare un nuovo conflitto).
Ponticelli sostiene e rafforza la claustrofobia della narrazione con uno stile grafico più simile a quello usato in Come un cane che a quello di Blatta, molto sporco e grezzo, che potenzia la frenesia delle scene più concitate, ma al contempo è più pulito e ordinato di quanto non fosse in precedenza, e si adegua al registro narrativo man mano che la storia procede nella sua spirale di cupezza e delirio. Come in Blatta, tuttavia, il lavoro di Ponticelli è in molti casi sufficiente a sostenere da solo la narrazione e
Due parole merita anche la colorazione di Oscar Celestini, che migliora col tempo e qui riesce a dare spessore alle figure molto meglio di quanto non avesse fatto in Come un Cane. Resta comunque il fatto che il disegno di Ponticelli è potente anche a livello di atto creativo, e quindi rimango convinto che le sue matite e inchiostri da soli potrebbero tenere banco ogni mese per ventidue pagine senza appesantire la narrazione e, anzi, rendendola ancora più potente. Spero che prima o poi se ne renda conto anche Vertigo.
Assolutamente interessante è il rapporto che si instaura tra horror e guerra. Un tempo i fumetti horror erano in buona parte metafore degli orrori della guerra, mentre ai fumetti di guerra stava una disamina di altri aspetti, magari anche non propriamente bellici. Con questo primo volume di Unknown Soldier l’horror e la guerra si fondono in una stessa storia in cui, alla fine, il “mostruoso reale” (violenza, morte, mutilazioni, bambini soldato, stupri, sangue, sforzi vanificati e quant’altro) è più spaventoso del “mostruoso fantastico”. Il vero mostro è il guerrigliero.
Per questo motivo la figura di Lwanga/Soldato sembra essere – per quanto intervenga, e con un certo peso, nella narrazione – un pretesto per raccontare il conflitto ugandese, reale protagonista della storia.
Sceneggiatura di Joshua Dysart, disegni di Alberto Ponticelli.
Negli anni Cinquanta-Sessanta gli Stati Uniti vedono fiorire una fitta produzione di fumetto bellico. Le motivazioni sono tra le più varie, e vanno dalla volontà di esorcizzare gli orrori del secondo conflitto mondiale, all’universale desiderio di ammenda e denuncia del sistema della guerra.
Di spicco, per tematiche trattate, argomentazioni narrative e prestigio degli autori furono testate come Two Fisted Tales o Frontline Combat, edite dalla E.C. Comics di William Gaines, sulle cui pagine situazioni belliche di tutte le epoche divenivano strumento di contestazione alla guerra, gioco privato di un potere che si sporca le mani solo indirettamente, e di proclamazione dell’uguaglianza dei popoli.
Le major del fumetto americano, che durante la seconda guerra mondiale avevano fatto fortuna il nuovo mito del supereroe, filtravano già parte di questi contenuti di derivazione bellica (la mostruosità, il terrore della bomba e delle sue conseguenze, una visione efferata della violenza) all’interno delle testate horror che tuttavia il Comics Code già aveva imbrigliato ad una produzione “meno deviante” per i giovani.
Sul fronte supereroistico, il Captain America di casa Marvel, unica figura strettamente legata alla guerra, vede un decennio (dagli anni Cinquanta fino al rilancio sulle pagine di The Avengers #4 del marzo 1964) molto poco fortunato; in casa DC tutto tace.
Col passare del tempo la guerra verrà messa da parte in favore delle sue conseguenze: lo spionaggio, la guerra fredda, la tensione verso un avversario presente ma al contempo assente, e le sue derivazioni: le esplorazioni spaziali, la corsa agli armamenti.
Poi, nel 1966, comparve il primo Unknown Soldier targato DC, un agente dell’intelligence statunitense, sul numero 168 di Our Army at Work (di Robert Kanigher e Joe Kubert), in una storia di Sgt. Rock dal titolo I Knew the Unknown Soldier. La storia era ancora una volta ambientata durante la seconda guerra mondiale.
Una versione Vertigo realizzata come miniserie da Garth Ennis nel 1997 (dopo un’altra miniserie degli anni ottanta), trasportava il Soldato alla contemporaneità, in un’avventura metropolitana che lo vedeva braccato dalla CIA, mentre questi cercava un suo sostituto.
2008. A sette anni dall’11/9, quando ancora il mondo guarda al medio oriente e l’America porta in viso i segni dell’attacco alle Twin Towers, il nuovo Unknown Soldier di Joshua Dysart e Alberto Ponticelli scarta con classe l’idea di una storia a fumetti di ambientazione afghano-iracheno troppo di comodo (e con tutta probabilità anche troppo recente, con tutto ciò che questo comporta) per puntare l’attenzione sull’inesauribile guerra civile ugandese.
Lwanga Moses è un medico di successo ugandese trasferitosi negli USA da bambino assieme alla famiglia, che si divide tra il suo lavoro di medico nelle zone di guerra e il suo ruolo di attivista nei paesi ricchi. La sua visione di risoluzione del conflitto ugandese passa per la non violenza e la sola resistenza africana (“african must change Africa, and they must do it without violence”). Di fatto però viene meno ad entrambi i pilastri del suo ragionamento nel momento in cui cede alla “possessione” dello spirito del Soldato; sarà proprio lui ad imbastire, sulla base di questo nuovo vigore selvaggio, la guerra di un uomo solo contro un esercito letale (in quanto composto da baby soldati), lui che, poi, di fatto, per quanto forti possa sentire le proprie radici, è più americano che ugandese.
La guerra raccontata da Dysart è quella vera, tangibile, sporca bastarda, spietata come tutte le altre guerre. Una narrazione che prende piede da un’attenta documentazione su luoghi, usanze e fatti di cronaca, per ritrarre un’Uganda in cui la guerra è all’ordine del giorno non solo degli adulti; non aggiungo di più in merito ma rimando al blog dello sceneggiatore per ammirare il puntuale e completo lavoro di documentazione che sta alla base di ogni episodio, corredato di notizie e di fotografie, finalizzati ad una resa verosimilie (per quanto in un’opera di finzione) della situazione socio-politica ugandese. In Haunted House Dysart punta il dito fin dall’inizio sul problema dei bambini soldato, bambini che imbracciano fucili verso la morte o verso una sopravvivenza che cambierà per sempre la loro vita.
Dalla narrazione di Dysart la guerra sembra assumere le fattezze di un loop di ritorsioni di una parte sull’altra; la reazione di Lwanga all’attacco di Acholiland da parte dei baby soldati dell’L.R.A. (Lord’s Resistance Army) è causa di una nuova reazione nel momento in cui l’one-man-army lascia il villaggio; guarda caso, poi, la reazione – così come la guerra stessa del resto – cade sempre sugli innocenti.
La guerra porta altra guerra. La violenza porta altra violenza. “Violence answered with violence… there’s no hope in that. No end in it” dice verso l’inizio della narrazione proprio Lwanga, al suo arrivo in Uganda. È un loop selvaggio al quale la società contemporanea non è ancora riuscita a trovare una soluzione che non passi per la sconfitta di una delle due parti (sconfitta che, tuttavia, prima o poi è destinata a scatenare un sentimento revanchista e ad innescare un nuovo conflitto).
Ponticelli sostiene e rafforza la claustrofobia della narrazione con uno stile grafico più simile a quello usato in Come un cane che a quello di Blatta, molto sporco e grezzo, che potenzia la frenesia delle scene più concitate, ma al contempo è più pulito e ordinato di quanto non fosse in precedenza, e si adegua al registro narrativo man mano che la storia procede nella sua spirale di cupezza e delirio. Come in Blatta, tuttavia, il lavoro di Ponticelli è in molti casi sufficiente a sostenere da solo la narrazione e
Due parole merita anche la colorazione di Oscar Celestini, che migliora col tempo e qui riesce a dare spessore alle figure molto meglio di quanto non avesse fatto in Come un Cane. Resta comunque il fatto che il disegno di Ponticelli è potente anche a livello di atto creativo, e quindi rimango convinto che le sue matite e inchiostri da soli potrebbero tenere banco ogni mese per ventidue pagine senza appesantire la narrazione e, anzi, rendendola ancora più potente. Spero che prima o poi se ne renda conto anche Vertigo.
Assolutamente interessante è il rapporto che si instaura tra horror e guerra. Un tempo i fumetti horror erano in buona parte metafore degli orrori della guerra, mentre ai fumetti di guerra stava una disamina di altri aspetti, magari anche non propriamente bellici. Con questo primo volume di Unknown Soldier l’horror e la guerra si fondono in una stessa storia in cui, alla fine, il “mostruoso reale” (violenza, morte, mutilazioni, bambini soldato, stupri, sangue, sforzi vanificati e quant’altro) è più spaventoso del “mostruoso fantastico”. Il vero mostro è il guerrigliero.
Per questo motivo la figura di Lwanga/Soldato sembra essere – per quanto intervenga, e con un certo peso, nella narrazione – un pretesto per raccontare il conflitto ugandese, reale protagonista della storia.
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