lunedì 10 ottobre 2011

Unknown Soldier TP4

Unknown Soldier TP 4 – DC Comics/Vertigo, brossurato, 128 pagine a colori, 14.99 $
Testi di Joshua Dysart, disegni di Alberto Ponticelli e Rick Veitch


Allora, diciamo subito che questo pezzo relativo al quarto TP di Unknown Soldier non è per chi ne è a digiuno, e si addentrerà nella trama palpandola, parlando apertamente di quel che succede, senza trattenersi. Ad ogni modo ne ho già parlato in occasione dell'uscita del primo TP, che poi significa trade paperback, che poi vuol dire semplicemente volume (brossurato, non cartonato, nel qual caso si parlerebbe di HC, o hardcover).
Tutto questo per dire: se siete amanti di Unknown Soldier ma non avete ancora letto il quarto TP fermatevi! Se siete tra quelli che assolutamente non vogliono aver niente a che fare con un pezzo che svela dettagli importanti di trama fermatevi!
Se invece l’avete letto, non vi importa che io vi dica come finisce o ve ne fregate e preferite leggere un post scritto bene piuttosto che un volume a fumetti scritto egregiamente e disegnato alla grande continuate pure.
Insomma SPOILER A FRAMMENTAZIONE, da qui in giù.




Il quarto TP si apre con un disegnatore ospite d’eccezione, Rick Veitch, ad illustrare la nascita del principale strumento bellico nelle rivolte e nelle guerriglie, l’AK-47. AK sta per Avtomat Kalashnikov, mentre 47 è l’anno in cui è iniziata la produzione di questo tipo di fucile, pensato dal Sergente Kalashnikov per far fronte all’assenza di fucili a corto raggio tra le fila dell’esercito russo. Unknonw Soldier 21 segue la storia di un singolo AK-47, raccontata per bocca dello stesso fucile, partito da Addis Abeba nel 2007 e giunto fino al Sudan, passando per l’Uganda. 
Nel 1947 Kalashnikov ha cambiato il modo di fare la guerra, aprendo alla possibilità della guerriglia, nel bene o nel male. Un’arma di liberazione o uno strumento di morte? Come si dice anche in queste pagine forse è impossibile distinguere tra le due cose; o meglio non è lo strumento che si carica di un valore positivo o negativo, ma chi lo impugna. Nonostante tutto la citazione di Milhail Kalashnikov riportata nella pagina finale è abbastanza indicativa, “I would prefer to have invented… a lawnmower” (Preferirei avere inventato una falciatrice): e infatti ha dato addio, in epoca recente, all’industria bellica per abbracciare quella dei superalcolici, con il lancio sul mercato della Vodka Kalashnikov, non a caso imbottigliata in bottiglie a forma di AK-47. Soldati morti o cirrotici, l’industria Kalashnikov non molla la strada della distruzione dell’individuo.
Solo apparentemente collaterale, questo episodio avrà una grande rilevanza nell’economia della serie e della sua conclusione.


Subito dopo attacca il ventiduesimo numero, con il quale si ritorna al team creativo originario per l’ultima cavalcata. Con un’ottima cover realizzata Dave Johnson ha inizio Beautiful World, storyarc conclusivo che getta luce sul mistero di Moses Lwanga. 
I due momenti su cui si regge tutta la struttura narrativa di questi ultimi quattro episodi sono il ricordo dell’incontro avvenuto nel 1997 tra il protagonista e il primo Unknown Soldier, quello che nel 1941 combatté nella seconda guerra mondiale (lo stesso di Joe Kubert?), e il suo triste epilogo. Su questa storia si innestano e trovano il loro compimento, la storia di Sera, quella di Momolu e, in un certo senso, quella di Jack Lee Howl.
Chi è Moses Lwanga? O forse è meglio chiedersi chi sia il Soggetto 9 e perché sia lui la chiave di volta di tutto il numero, che si addentra nella psiche e nei ricordi del suo protagonista per svelare la più scomoda delle verità: Moses Lwanga non esiste, lui è il vero sconosciuto (più un Unknown Doctor che un Unknown Soldier), lui il vero estraneo, l’identità di troppo impiantata in una persona scomoda che, pian piano, dal primo volume è rientrato in contatto con il vero se stesso, che gli parla nella testa e prende il controllo delle sue azioni.
L’Unknown Soldier originale è qui ritratto allo stesso modo dell’AK-47 del primo capitolo di questo volume. Una macchina da guerra in grado, da sola, di stravolgere l’esito di una guerra. Un’arma che, nel tentativo di trovare una progenie, ha optato per creare in laboratorio un uomo di pace (Moses); impugnato dalla rivolta (e impugnandola a sua volta) il soldato ritrova la sua strada verso la superficie, sostituendosi gradualmente all’uomo di guerra.
Joshua Dysart usa uno stratagemma narrativo molto interessante, ribaltando la prospettiva di chi legge ma senza mancare di rispetto alla sua intelligenza: lo fa gradualmente, sin dall’inizio, sin da quando Moses Lwanga è costretto a bendarsi il volto. E allora, con il venir meno del volto viene meno anche la certezza dell’identità. Potrei sbagliarmi, ma leggendolo si ha l’impressione che questa fine fosse decisa fin dall’inizio, pronta in un cassetto per il momento della chiusura.
Sta di fatto che il capitolo dedicato a Sera è uno dei migliori, a mio parere, di tutta la serie, e non solo per il modo in cui l’autore sceglie di spostare il proprio punto di vista sul personaggio che, per tutta la durata del primo numero, è stato il contrappeso di Moses. Dopo i primi numeri disegnati con lo stile rapido e sporco pre-Blatta e i numeri di Dry Season disegnati con lo stile di Blatta, che alle chine affianca una maggiore attenzione a sfumature ed ombre, Alberto Ponticelli sceglie per questo albo numero 22 di mescolare le due cose. Questa scelta ha due diversi momenti: una fotografia (che occupa un’intera vignetta ed è incredibilmente in contrasto con quelle che lo circondano) che potrebbe stare ad indicare il momento in cui la donna prende la decisione di inseguire il soldato e scoprire la verità sul marito, un singolo pensiero cristallizzato che, assieme alla successiva sequenza del viaggio, resa con la stessa tecnica, rappresenta il suo momento di svolta (tutta questa è ovviamente un’interpretazione personale, ovviamente).
Nella parte successiva, fino alla fine del volume, si torna allo stile che ha definito la serie; ruvido e spigoloso, il lavoro di Ponticelli restituisce figure in tutto e per tutto dinamiche, mai fisse, mai statiche, sempre pulsanti, pervase da tensione muscolare o nervosa. Anche i morti sembrano sempre un po’ più vivi, sempre più prossimi alla morte, quasi intrappolati al penultimo respiro. In questo sta la brutalità della guerra. In questo sta la forza di un fumetto come Unknown Soldier.


Sul finale c’è poco da dire, e allo stesso tempo molto. Il Subject 9 muore e non riesce a spezzare il giogo dell’LRA. Avrebbe potuto? Si. Sarebbe stato verosimile? No. Dysart sceglie di rimanere aderente alla realtà pur giocando nel campo della finzione. Una macchina da guerra riprogrammata che sfugge alla programmazione può essere una scelta dettata da una grande immaginazione, la fine della guerra civile, invece, per quanta immaginazione ci possa essere, è ben lontana. Nel primo volume (Haunted house) a un certo punto si diceva che solo l’Africa può liberarsi della guerra civile e cambiare se stessa, senza la violenza. Alla luce di questo l’africano americanizzato, cresciuto nella violenza e due volte rinato negli Stati Uniti, che prima lo corrompono e poi lo manipolano, quante possibilità aveva di mettere fine alle stragi? Proprio lui che, come un AK-47, ha mietuto così tante vittime…
Dysart consegna Joseph Kony alla vita e Moses Lwanga/Unknown Soldier alla morte (pur donando al suo “lato buono” la pace meritata). Non poteva fare altrimenti.
L’elemento chiave della conclusione sta nell’ultima pagina: un ragazzino armato di arco e frecce si benda il volto prima di pattugliare la zona. È una consegna, un passaggio di poteri. È la potenza del simbolo che porta in sé il peso della lotta per la libertà.
It’s not over for the unknown soldier.

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