mercoledì 11 novembre 2009

DMZ

Ogni giorno è il 9/11. È una delle prime cose che si nota all’interno dell’assetto militaresco della serie dello scrittore rivelazione Brian Wood.
DMZ è stato – ed è tutt’ora – una folgorazione. Una folgorazione il cui unico problema potrebbe essere il rischio di un lento deterioramento numero dopo numero.
Gli Stati Uniti si trovano spaccati a metà e in lotta tra di loro. Da una parte gli Stati Uniti d’America, dall’altra gli Stati Liberi. Nel mezzo Manhattan, la DMZ, la zona demilitarizzata, da cui le truppe si sono ritirate e in cui gli abitanti sono stati lasciati al loro destino. Nel mezzo Matthew Roth, giovane giornalista freelance che, trovatosi lì per caso, sceglie di rimanere e raccontare la vita di Manhattan, il luogo dove Ground Zero è solo un piccolo pezzo di un più grande Ground Zero.
La guerra civile, nonostante sia il motore della maggiorparte delle situazioni, non è altro che lo sfondo delle situazioni in cui si trovano a vivere Matty e i vari personaggi che gli gravitano attorno.
Tematica sicuramente degna di nota, che spicca sulle altre e fa da trait d’union ai vari albi, è quella legata al giornalismo come ricerca della verità. Wood scherma Matty dietro ad un ideologismo giornalistico ormai perduto, che vuole il giornalista non schierato e assolutamente fedele all’avvenimento raccontato. Quando scoppia una guerra la prima vittima è la verità; Mattew Roth sembra, in DMZ, essere l’unico ad interporsi realmente tra le beghe militari e la verità, impedendo – o sforzandosi di farlo, nonostante il fuoco, i calci, il sapore del sangue in bocca – che questa venga in qualsiasi modo manipolata da consorterie di ogni tipo.

In quello che è un vero e proprio calderone storico, DMZ unisce tra le sue pagine alcuni degli elementi più caldi della storia americana, a partire dalla guerra civile, che qui è nuova e tecnologica, ma non per questo meno brutale e sanguinosa; l’11/09, punto di svolta nella storia degli USA, la fine dell’inattaccabilità e l’inizio della reazione; le elezioni Bush-Kerry, che se in realtà si limitarono a spaccare in due l’opinione pubblica, su queste pagine vengono portate all’estremo sotto forma di due fazioni opposte; la guerra in Afghanistan e, soprattutto, in Iraq.
Con una manovra astuta, oltretutto, Wood sembra voler trasportare il conflitto iracheno sul territorio statunitense, in un meccanismo sincretico che potenzia il significato della guerra (e, in particolare, di quella specifica guerra) rendendola paurosamente vicina a chi l’ha voluta.
Del resto la guerra civile primeggia tra i sintomi di malattia di uno stato, grazie anche al fatto di essere potentemente e spaventosamente evidente, quindi è ben lecito pensare che il messaggio di Brian Wood sia, come tanti altri suoi colleghi scrittori, un messaggio di denuncia nei confronti di un paese che ormai sta perdendo l’orientamento.
A Manhattan, invece, l’orientamento è bell’e andato, perduto, e la società che ne deriva cerca di trovarne uno nuovo per arrivare alla fine della guerra, o anche solo a fine giornata.
In questo senso diventa fondamentale il lavoro alle matite di Riccardo Burchielli, che ritrae questa società sui generis in tutta la sua caoticità, seppure, al contempo, riuscendo a razionalizzarla e a coscriverla all’interno di bizzarri – e quasi assurdi – tagli prospettici.



Bibliografia:
DMZ vol. 1-5 (2006-2008; 2007-2009 edizione italiana, Planeta DeAgostini, 128-168 pagine a colori, € 10,95-12,95)
Testi e copertine di Brian Wood, disegni di Riccardo Burchielli.


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