mercoledì 26 gennaio 2011

10 cose che non dovrebbero mancare in un fumetto pt. 1: coerenza

da http://www.comix.it/

Non parlo di coerenza narrativa. Cioè, quello è ovvio, se non c’è si può andare tutti a spasso. Parlo di coerenza verso il sistema di riferimento e le sue leggi. È uno degli elementi che, secondo me, fanno la differenza tra il bravo scrittore [di fumetti ma non solo] e quello mediocre.
Ora farò un nome che tutti diranno “oooh, bella scoperta”, ma se si vuol capire qualcosa bisogna studiare prima di tutto il lavoro dei maestri. Anzi in questo caso il termine adatto è sensei.
Naoki Urasawa lo è senza dubbio [“oooh, bella scoperta”], un sensei. Perché costruisce storie che coinvolgono, che hanno un bell’intreccio non banale, ben elaborato, ricchi di richiami ad un sottotesto che l’autore riesce ad offrire – e non ad ostentare – al proprio pubblico per dare una caratterizzazione più vibrante a trame e segno.
Io Urasawa lo leggo da poco – mea culpa – ma fino ad ora non mi ha mai deluso. Per chi non lo conoscesse, il suo masterpiece è 20th Century Boys.
A te che non l’hai ancora letto [perlomeno fino all’ottavo numero dell’edizione italiana, numero a cui sono inesorabilmente arenato in attesa che Panini ristampi i numeri seguenti] e intendi fare sconsiglio vivamente di continuare a leggere quanto da me scritto. Se poi vuoi andare avanti e sei uno che odia gli spoiler a morte [come è giusto] poi non lamentarti.

Bene, potrà sembrare una cosa stupida ma c’è una cosa che mi ha fatto rendere conto di come Urasawa sia veramente uno scrittore come ce ne sono pochi.
Al quarto volume di 20th Century Boys la trama è già fitta e il lettore già conosce i protagonisti e parte della loro storia, oltre a quella del loro avversario, il capo di una setta/associazione che tutti gli affiliati chiamano l’Amico. L’Amico sembra perseguire la distruzione del mondo, o qualcosa che ci va molto vicino, o qualcosa che necessita della distruzione del mondo per avvenire. Per fare questo, dopo una serie di attacchi batteriologici e l’esplosione del vecchio aeroporto di Tokyo, l’Amico ha bisogno di un robot per attaccare la città.
Se pensiamo a qualsiasi robot di fumetti o anime il risultato oscilla tra una scatola metallica e uno snello ibrido tecnorganico, che è sempre forte, agile, veloce e quant’altro. Chi disegna robot deve fare attenzione a molti aspetti ed elementi pratici, tecnici, meccanici e – spesso ma non sempre – fisici. È una cosa di cui mi sono reso conto quando ho assistito (era il settembre 2009, a Padova Art&Comics) a una dimostrazione di Francesco Frosi sul disegnare i robot: cosa doveva muoversi e come influenzava forme, dimensioni, innesti e in certi casi necessitava una protezione ulteriore, perché più fragile rispetto alle parti “lisce”. Ve l’ho resa molto sintetica ma il succo era che un robot doveva essere pensato e disegnato senza mai perdere di vista come una parte dovesse muoversi e agire in rapporto alle altre.
Questo da un punto di vista “grafico”. Ma da un punto di vista concettuale?
In un fumetto di fantascienza ambientato nel futuro probabilmente esistono leghe metalliche iperresistenti e al contempo leggerissime, che permettono di realizzare titani di metallo completamente in grado di reggersi da soli senza frantumarsi sotto il loro peso.
In un fumetto di ambientazione contemporanea che vuole essere verosimile [e ce lo dimostrano i suoi riferimenti al mondo reale che vuole esserlo] questo è possibile?
Non vi arrovellate, la risposta è NO.
Ed è qui che si torna a Urasawa e 20th Century Boys. I piani dell’Amico per il robot sono basati sui cartoni animati di robottoni degli anni ’60-’70. Le stesse persone che, nell’ottavo capitolo del quarto volume, troviamo riuniti attorno ad un tavolo per discuterne i dettagli, provengono presumibilmente da un simile retaggio immaginifico. Si preoccupano di come comandarlo, di quali armi servirsi, o quale sistema propulsivo sia migliore per farlo volare; addirittura portano come modellino un robot giocattolo, pensandolo una buona riduzione.
La coerenza di Urasawa sta in quello che dice il professor Shikijima, scienziato rapito appositamente per la costruzione del robot:

Voi continuate a parlare di costruire un robot di cinquanta metri, ma tutto ciò è ridicolo!! […] Un robot tanto grande esiste solo nei cartoni animati!! […] Anche se fosse alto cinquanta o quaranta metri… difficilmente un coso simile potrebbe volare… se analizzaste il lancio dei razzi spaziali dovreste capirlo. […]
Cosa credete che succeda ingrandendo il vostro modello di diverse decine di metri? Le gambe non potrebbero sopportare il tronco e cadrebbe schiacciato dal suo stesso peso. […] Non avete considerato i sobbalzi causati dalla camminata. Con quelle gambe, se qualcuno dovesse trovarsi all’interno della sua testa subirebbe un gran numero di urti e soffrirebbe di un terribile mal di mare… la cabina di guida si riempirebbe subito di vomito. Partiamo dall’assunto che è impossibile ingrandirlo lasciandogli quelle gambe. Sarebbero più opportune delle ruote... già potremmo usare dei carri armati.

Non credo che, a questo punto, ci sia molto da aggiungere. Urasawa ha realizzato che un robot fantascientifico non potesse entrare in nessun modo in una storia verosimile. Molti avrebbero probabilmente trascurato la cosa e avrebbero inserito l’elemento robottone. Urasawa risolve invece la cosa in modo coerente con i nostri tempi, e così quando tra il settimo e l’ottavo volume ci rivela le reali fattezze del robot, per quanto inquietante non si può che abbozzare un sorriso: un pallone aerostatico, di fatto, montato su due rozze gambe meccaniche che simulano una camminata grazie a cingoli che funzionano alternatamente. Una “bestia” grezza e impacciata – ma non per questo meno letale – che rispecchia il nostro grado di evoluzione, e non chiede (e non dà) di più di quello che i nostri tempi possono fare.

martedì 18 gennaio 2011

Di fantascienza, vuoti e altre citazioni

Quando leggi un fumetto ci sono cose passibili di interpretazione e cose no. Cose che l’autore ti mette lì, filtrate, che basta prendersi la briga di fare due ricerche, e cose che invece potrebbero essere, significare, alludere a.
È un’idea che mi pare si adatti bene a Ignition City. Su un livello zero troviamo la narrazione principale, una storia di fantascienza/avventura vecchio stampo, che se da un lato può ricordare i momenti “a terra” dei film di Lucas, dall’altro strizza l’occhio allo steampunk (ma solo nell’estetica, il vapore non ha chiaramente casa in queste pagine, motivo per cui si può parlare di dieselpunk) e all’avventura tradizionalmente intesa come viaggio di scoperta. Protagonista è Mary Raven, figlia del famoso astronauta Rick Raven, arrivata ad Ignition City dopo la morte del padre, per indagare e raccoglierne l’eredità. Ignition City è una curiosa città-isola-spazioporto, attualmente chiusa ai voli spaziali, che per la sua particolare funzione e popolazione (umani ex-esploratori e alieni) viene considerata già spazio profondo.
È un’epoca di rivoluzionamenti, quella in cui si ambienta la storia: un 1956 in cui la seconda guerra mondiale è ancora un focolaio ardente, o meglio era, prima che gli alieni irrompessero sulla Terra scombussolando le carte. Conseguenza principale di questa mossa è l’arresto – eccezion fatta per l’Inghilterra – dei voli spaziali.
A qualcuno questo potrà aver fatto suonare qualche campanello, infatti i personaggi della storia – eccezion fatta per Mary – sono derivati dai prodotti di fantascienza e avventura degli anni ’20-’50. Buck Rogers, Dan Dare, Flash Gordon, Commando Cody (o quello che sembra un misto di Commando Cody e Rocketeer, il cui volto umano tanto ricorda quello di Timothy Dalton, che impersonò il malvagio Neville Sinclair nella pellicola di Joe Johnston). Insomma, i riferimenti sono tanti e sulla grande piazza di internet potete trovarli, quindi è abbastanza inutile che io stia qui a fare sinossi di questa lega degli straordinari esploratori allo sbando targata Warren Ellis e Gianluca Pagliarani. Una carrellata di avventurieri del passato, che lo scrittore ci presenta qui logori e corrotti dall’obbligo di una vita a terra.
Tra i tanti eroi di carta e celluloide troviamo poi il primo cosmonauta, Yuri Gagarin, anche lui bloccato a Ignition City senza possibilità di ritornare alle stelle (benché nel ’56 Gagarin non fosse nemmeno diplomato all’Accademia Aeronautica, ma questo è chiaramente un riflesso della commistione culturale terrestre con quella aliena, che ha chiaramente portato il pianeta ad un più rapido avanzamento tecnologico).
Lo stesso stile di Pagliarani - che inizialmente non mi convinceva troppo, devo dire, ma poi ho dato la colpa alla colorazione - sembra qui avere alcuni tratti di certo fumetto d'avventura anni '20-'30; accenni di tratteggio che possono ricordare quelli di Dick Calkins, volti non troppo appesantiti nel segno, quasi a voler sottostare agli spazi di una strip in bianco e nero dalla qualità di stampa discutibile. Tutti elementi che, di certo, si sarebbero notati meglio senza la colorazione.

Dietro ai complotti e alle speculazioni, quindi, sembra celarsi un messaggio più grande: abbiamo smesso di guardare allo spazio, abbiamo smesso di sognare, abbiamo abbandonato l’avventura per il piacere della scoperta, della novità. La fantascienza (sia essa su carta o su schermo, piccolo o grande) o muta in un sottogenere di analisi dell’individuo, della società, si interroga sull’individuo, sui problemi del mondo, sui grandi vuoti. Che sia un bene o che sia un male, che piaccia o no, non c’è più l’avventura di una volta (prima che lo scriva qualcun altro), l’avventura – si potrebbe dire – fine a se stessa. Certo, non è che poi Ellis lavori diversamente, se la vogliam vedere così: Ignition City è un fumetto di fantascienza che ci testmonia la malinconia dell’avventura old school, NON attraverso una storia avventurosa tout court, ma attraverso un mix di indagine e azione che fa riferimento ad una mancanza.

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IGNITION CITY (2010, Avatar press - edito in italia da edizioni BD, 144 pagine, € 13,00).
Sceneggiatura di Warren Ellis e disegni di Gianluca Pagliarani.