giovedì 23 settembre 2010

DEMO

DEMO (2008, DC/Vertigo, brossurato, 352 pagine in bianco e nero, $ 19,99 - edito in italia da DoubleShot/Bottero Edizioni, 328 pagine, € 18,00).
Sceneggiatura di Brian Wood e disegni di Becky Cloonan.

All’inizio del Duemila Brian Wood lascia la Marvel, per la quale aveva lavorato alla sceneggiatura di alcuni gruppi mutanti (tra le altre cose collaborando con Warren Ellis, cosa che avrebbe dovuto far riflettere), intenzionato a scrivere qualcosa sulla falsariga del giovane supergruppo con problemi ma con una lettura più personale.
È il 2002 – dice Wood nella postfazione al volume – e il primo numero di Demo verrà alla luce l’anno seguente.

Demo è una serie atipica sotto molti aspetti. La prima stagione (termine che molto probabilmente gli viene affibbiato retroattivamente, dopo il battesimo della seconda di stagione) si è conclusa nel 2005, uscendo con cadenza trimestrale (assumo, dal momento che dodici numeri sono usciti in tre anni preferisco pensare a “trimestrale” piuttosto che a “discontinua”) e presentando dodici storie del tutto scollegate tra loro.
È stata pubblicata in bianco e nero, cosa di certo insolita nell’America dei comic book dai colori ultrapatinati.
Becky Cloonan ha un talento naturale per variare - non dico stravolgere, eh - il suo stile grafico e adeguarlo al registro narrativo e tematico di Wood, e anche questa non è una cosa da sottovalutare.

Il risultato di tutto questo, per l’appunto, è Demo, una serie di racconti a fumetti i cui protagonisti sono ragazzi con superpoteri. Il fatto è che Wood da alla cosa il minimo peso possibile, e si concentra invece sul raccontare un episodio della loro vita; in molti casi, come accadeva per i mutanti Marvel, la scoperta del potere era un punto di svolta nella vita del personaggio, vissuto non senza difficoltà e problemi ad accettarsi.
Demo si colloca a metà tra le narrazioni più propriamente superoistiche di Wood, come Generation X, e quelle più intimiste, come Local o Pounded, con un’attenta analisi dell’individuo che è poi impossibile non ritrovare in opere di più ampio respiro come DMZ o Northlanders. Scompaiono i nemici. I veri nemici dei super-ragazzi, per niente eroi perché non interessati alla categoria, sono i problemi quotidiani.
Wood ci mostra come, al cambiare dei tempi, i contenuti siano gli stessi e a mutare sia il modo di trasmetterli. Chi è dentro al tema, poi, sa bene che “giovani con superpoteri” è solo un modo per dire emarginati, personaggi che vivono al confine, mai completamente accettati e compresi.
Mutano i tempi ma non la sostanza. Wood affronta così aspetti della vita umana come il dover convivere con i problemi familiari e la fuga, la guerra e l’omicidio, l’amore e la sua fine, la morte e il suo annullamento, l’amicizia e lo sfruttamento, i conti con il passato, il peso dei ricordi, l’egoismo, il saper gestire i momenti difficili della propria vita per andare avanti.

giovedì 16 settembre 2010

BATMAN - THE KILLING JOKE

Batman - The Killing Joke [Absolute edition] (2009, Planeta DeAgostini, cartonato, 68 pagine a colori, € 9,95).
Sceneggiatura di Alan Moore, illustrazioni di Brian Bolland.

The Killing Joke appare alla fine degli anni Ottanta (1988) negli Stati Uniti e presenta quella che di sicuro è una delle pagine più particolari della carriera dell’uomo pipistrello. Alan Moore lo scrive puntando l’attenzione maggiormente sul Joker, classica nemesi di Batman, che sull’alter ego di mr. Wayne.
Forse sapeva che le storie migliori sono quelle scritte attorno ai villain; come sapeva anche Tim Burton, la cui citazione in quarta di copertina testimonia il suo amore per Killing Joke, con tutto quello che ne può derivare.
Forse no, e la reale motivazione è ad anni luce dell’affermazione qua sopra, che è vera quanto banale.
The Killing Joke si muove su due direttrici principali: il piano del Joker di far impazzire il Commissario Gordon e il tentativo di Batman di parlare col suo arcinemico al fine di porre un freno alla spirale del delirio in cui da anni si sono calati e che sa, prima o poi, culminerà con la morte di uno dei due. Oltretutto quella che potrebbe sembrare a tutti gli effetti una storia fuori continuità si colloca nella cronologia degli eventi del pipistrello in modo brutale, con la ridefinizione dello status di Barbara Gordon, che ne uscirà in carrozzella e molto vicina al suo nuovo ruolo di Oracolo.

Con una storia dalla trama semplice e dalla scrittura complessa, Moore fa breccia nella psiche dei personaggi sfondando la visione manicheista secondo cui la lotta tra eroe e villain sia una lotta tra bene e male, tra sano e folle.
«Basta una brutta giornata per ridurre alla follia l’uomo più assennato del pianeta» dice il Joker, ma questa affermazione – fa notare il vigilante mascherato – è imprecisa: se è stato così per loro due non lo è stato per Gordon.
La distinzione, dunque, si sposta tra folli e normali. La follia è già nell’individuo, nella sua forza di reagire ad una “brutta giornata”: chi impazzisce e chi no. Il motivo che lo porta ad impazzire, l’oggetto del suo odio, servirà a configurare la sua posizione al di là di una barricata in cui eroe e malvagio differiscono dall’oggetto dell’odio. Tuttavia non c’è distinzione, ed è ormai eterna l’assimilazione dell’eroe violento al villain.
Il Batman di Moore – anche su consiglio dell’assennato Gordon – ferma il Joker senza sfoggio di muscoli (benché due pugni li assesti) perché “intende seguire le regole”.
Nel 1986 c’era stato The Dark Knight Returns di Frank Miller. Nel 1987 Batman: Year One, sempre di Miller. In contemporanea con il suo Watchmen, Moore opta per una lezione su Batman, rendendolo meno sadico, meno violento, meno tatcherianamente fascista nel modo in cui sceglie di applicare la legge.

La ciliegina sulla torta è la storia delle origini del Joker, che si svolge in parallelo con la narrazione principale. È la storia di un uomo alla fine, di un artista disperato dal proprio insuccesso, che si trova di fronte alla difficoltà di mantenere la propria famiglia e il figlio in arrivo, e che allora sceglie la strada del crimine. Un uomo come tanti che sprofonda nella follia a causa del congiurare degli eventi, che gli portano via tutto. Moore lo rende umano come non lo è mai stato, sfortunatamente umano, verrebbe da dire.

giovedì 9 settembre 2010

The Graphic Dead

Ed eccoci qui.
Mi sarei aspettato una maggiore partecipazione… voglio pensare che non abbiate risposto perché avete trovato nella risposta di nuvoleonline la verità, certo abbozzata e astutamente non spiegata. Devo ricordarmi, la prossima volta, di farvi rispondere via email, perché altrimenti finisce che il primo che indovina toglie la voglia a quelli che leggono dopo di rispondere.

Venendo alla nostra caccia all’errore, come dicevo, nuvoleonline ha visto giusto. Il problema Contollando le premiazioni degli Harvey Awards (e quelle degli Eisner, pure) potrete notare come The Walking Dead sia stata premiata come best continuing series. Best continuing series significa – a beneficio dei non angolofoni – miglior serie in prosecuzione, all’incirca. Una grossa prosecuzione, visto che l’ultima volta che ho controllato, negli USA, erano usciti 76 albi.
Verso la fine del trailer, invece, si dice:

Based on the original Image graphic novel written by Robert Kirkman

Graphic novel è uno dei termini problematici e dibattuti del mondo del fumetto, la cui problematicità è seconda solo a quella legata all’articolo (il o la?) che regge il termine nella sintassi italiana. La paternità del genere è attribuita a Will Eisner, che nel 1985 ne parlava come di una particolare forma di comic book ad uno stato embrionale. Nel suo Comic & Sequential Art, Eisner racconta di come, negli anni Settanta, l’America dei comics vivesse uno squilibrio tra l’elevato livello di realizzazione artistica e la pochezza di storie raccontate, sempre più stereotipate; il target dei comic book, per Eisner, era totalmente infantile, mentre gli adulti non li vedevano di buon occhio.
È allora che si inizia a ragionare di graphic novel, di “romanzo grafico”, che già terminologicamente rimanda a qualcosa di completo, con un inizio e una fine. Negli anni a venire chiunque ha detto la sua in merito a questo formato, per cui si dice graphic novel (sono solo alcune di quelle che mi vengono in mente al momento):
a. di una storia a fumetti pubblicata interamente, non serializzata;
b. di una storia a fumetti originariamente concepita come qualcosa di finito;
c. di una storia a fumetti non di supereroi;
d. di una storia a fumetti successivamente raccolta in volume;
Onestamente, alcune di queste idee sono, a mio avviso, totalmente prive di senso. Addirittura un artista del calibro di Eddie Campbell, nel suo Graphic Novel Manifesto, definisce graphic novel non come un formato bensì come un movimento.
a. esclude buona parte della produzione considerata graphic novel, a partire da un pilastro come Maus di Art Spiegelman, o il più recente Essex County (di Jeff Lemire), assolutamente romanzesco e completo pur nella sua tripartizione.
c. esclude che qualcuno possa realizzare graphic novel che parlano di supereroi, il che è errato dal momento che non dovrebbe essere una questione di genere; partendo da qui, inoltre, qualcuno potrebbe affermare paradossalmente che laddove mancano i supereroi si ha graphic novel, cosa che etichetterebbe come tale serie come, ad esempio, Bone di Jeff Smith, Strangers in Paradise di Terry Moore o, che so, DMZ di Brian Wood.
D’altro canto se prendessimo d. per buona dovremmo considerare graphic novel tutto quello che viene raccolto in volume, quindi qualsiasi TP dovrebbe venire considerato graphic novel. Dio ce ne scampi.
Resta b., che sembra la più sensata, anche se volge la questione in un problema di fiducia verso l’autore. Tenendo per buona b., quindi, una serie come Chew (di John Layman e Rob Guillory) dovrebbe venir considerata graphic novel, dal momento che Layman dichiarò di avere già in mente a grandi linee tutta la storia, che sarebbe durata esattamente sessanta numeri, e che aveva già stabilito nel dettaglio alcuni punti cardine di questa.
Mani nei capelli, dunque.Tutto questo come antipasto.
Se c’è una cosa su cui sento di essere sicuro è che graphic novel e lunga serializzazione non vanno d’accordo.
The Walking Dead è una serie. Per quanto io stimi Robert Kirkman non etichetterei mai The Walking Dead come graphic novel; è una serie, un’ottima serie, una storia di zombie in cui gli zombie sono il meno, in cui quello che conta è l’individuo, la sua reazione. Gli zombie sono solo un reagente narrativo utilizzato per dare una scossa ad un sistema in equilibrio e vedere come questo reagisce; Kirkman lo fa alla perfezione, ne sono prova tutti i premi vinti con la serie.
Ma resta il fatto che non è graphic novel ma comic book. Volendo riprendere le nostre definizioni, possiamo dire che Kirkman abbia già in mente la storia nella sua interezza? Chi può dirlo.

A questo punto sorge un altro problema: se The Walking Dead è una serie perché nel trailer c’è scritto graphic novel? Un nuovo grossolano errore di un sistema dello spettacolo troppo spocchioso per porsi il problema? O, peggio, una scelta ponderata, dettata dalla volontà di elevare la storia con un’etichetta più altisonante?
Spererei nel primo caso, ma temo sia più veritiero il secondo. In un’ottica di mercato un’etichetta come “graphic novel” serve ad attirare molti più spettatori, laddove “comic book” dovrebbe scontare un retaggio troppo lungo (senza considerare tutti i vari “ma che c’entrano i supereroi con gli zombie?”). Se così fosse il passo a pensare che l’America stia iniziando a svalutare il fumetto è tanto breve quanto grave.
Collateralmente, la scelta di fare di Walking Dead una serie tv è una scelta dettata dall’aver visto il reale potenziale della serie (sarebbe, a memoria, l’unica altra serie di zombie oltre alla miniserie britannica Dead Set) e nell’averlo calibrato meglio per una serie tv (per dimensione, portata tematica, vastità delle storie presenti) piuttosto che per il grande schermo? O non è altro che un segnale – come accadde, spiace dirlo, per il cinema – che anche l’industria della serialità televisiva inizia ad essere a corto di idee e che il fumetto verrà saccheggiato e stravolto, puntando tutto sul personaggio e tralasciando la storia?
Se guardiamo ai precedenti l’antenato storico è The Incredible Hulk, con Lou Ferrigno. Negli anni seguenti abbiamo avuto un Dark Angel troppo simile a Gunnm, un pessimo Witchblade, un forse peggiore Birds of Prey, e qualche telefilm sui mutanti Marvel (ricordo un Generation X e una cosa che non c’entrava più di tanto). In anni più recenti il pilastro forte sembra essere Human Target, con il quale è stato fatto un buon lavoro, e già si legge online dell’intenzione della Warner di produrre un serial tratto da The Sandman. Cosa dobbiamo aspettarci per il futuro?

mercoledì 1 settembre 2010

Scopri l'errore 2

Vi ho fatto aspettare parecchio, ma dopo l'estate ecco che ritorna mind the closure.
Siccome a me piace la gente che pensa iniziamo questo nuovo tour con un nuovo errore da scovare, questa volta un po' più concettuale, quindi vi sfido a scoprirlo entro una settimana.
Ad ogni modo non darò la soluzione finchè qualcuno non l'avrà trovata, altrimenti dove sta il senso?

E allora via a "Scopri l'errore 2" (consiglio di vederlo in grandi dimensioni su youtube, semplicemente cliccando sopra il video, al di là del contest) :




L'errore, come ho già detto, diversamente dall'altra volta è più un errore di concetto, potremmo definirlo un "errore teorico" diciamo, e prima che qualcuno mi accusi di essere un fissato faccio presente che è un errore che porta una colpa un bel po' grossa, a mio avviso.

E siccome penso non sia semplicissimo vi do anche un primo indizio (a cui potrebbero seguire altri indizi così come no): http://www.comicus.it/view.php?section=news&id=7519.