giovedì 24 giugno 2010

Scrivere SUI fumetti (parte 2)















Può esistere un sistema della critica fumettistica perfetto?
No.
Può esistere un sistema della critica fumettistica ideale?
Si.

In Italia quello che non funziona, ogni stortura, ogni ritardo e ogni problema che viene più volta rinfacciato ai siti di informazione sul fumetto è in buona parte – non dico del tutto anche se forse… ma no, in buona parte andrà benissimo – dovuto all’editore.
Pensateci un attimo. Ritardi, mancanze e tentativi di colmare queste di fretta e in ritardo, superficialità e fretta che ne derivano. Tutto o buona parte di tutto potrebbe essere risolto semplicemente se le case editrici di fumetti credessero maggiormente in quello che pubblicano e se osassero quel tanto in più da consentire una buona promozione del materiale. Questo gioverebbe sia all’editore sia all’autore.
Basterebbe, in sostanza, che gli editori di fumetti si comportassero come gli editori di narrativa o saggistica. Che senso ha spedire materiale promozionale con uno o due mesi di ritardo? A mio avviso è inutile. Totalmente inutile.
La logica della spedizione promozionale, casomai, è efficace se anticipa l’uscita del prodotto di qualche settimana, in modo tale che qualcuno di più o meno competente lo legga e ne scriva. Così ogni albo, volume, tankobon, cartonato o cofanetto arriverebbe nelle edicole con già una minima cognizione di cosa ci si troverà per le mani.

In Italia una cosa simile è impensabile. Impensabile nel senso che non viene pensata, che gli editori non ci pensano, che non promuovono se non DOPO la pubblicazione del volume (e in che modo? Ne vogliamo parlare?). La cosa ha un riscontro minimo per quanto riguarda il materiale estero, per il quale è possibile reperire informazioni relative all’edizione originale (certo, questo non metterà i lettori al sicuro da problematiche come “pessima rilegatura destinata a durare si e no cinque giorni”, “pessima cura editoriale”, “pessima traduzione”), ma per quello italiano?
Questo intacca la catena e ricade inevitabilmente sugli anelli più deboli, i lettori ma anche – indirettamente – i piccoli venditori. Perché se uno dei media non parla di un libro a fumetti (e per parlarne non intendo il trafiletto di lancio su una rivista) il grande negozio della grande città non ha problemi a comprarne comunque qualche copia, ma il piccolo negozio si fa lo scrupolo, si chiede se ne valga la pena, e il più delle volte la risposta rischia di essere no.

Chi ne fa le spese?
Nel momento t0 il lettore.
Nel momento t1 l’autore.
Nel momento t2 l’editore (ma è una fossa che si è scavato con le proprie mani, quindi a un bel momento si può dire anche “problema suo”)
Nel momento t3 il sistema fumetto del paese.

Penso che ci voglia maggiore impegno da parte dell’editoria fumettistica italiana, e parlo anche delle “major”, che al di là delle collane dalla vendita assicurata pubblicano anche albi e volumi che si discostano da un certo tipo di produzione e che spesso vengono erroneamente etichettati in partenza. Penso che sia dovuto anche come forma di rispetto verso gli autori e il loro lavoro, perlomeno verso quelli che si sforzano di realizzare una buona storia a fumetti; ma siccome è con i mutamenti generali che si cambiano le cose, diciamo pure che si deve far promozione anche per le porcherie degli autori pigri e svogliati e che non si impegnano: se l'editore e l'editor non sono in grado di distinguere da un buon lavoro - vuoi perché sono lesi, vuoi perché è di un amico e non vogliono fargli uno sgarbo, vuoi per una bizzarra somma delle due cose - comunque gli conviene fare in modo che venda per non tornare a casa con le braghe rotte.
Maggiore impegno e maggiore serietà, anche, che a volte mi viene da pensare “E se fosse tutto un inganno? Se a loro del fumetto non gliene importasse niente se non come mezzo d’introito? Se, addirittura, si vantassero di essere editori di fumetti solo nelle situazioni ‘competenti’ e con il resto della società se ne vergognassero?”.
Poi la sola idea mi deprime troppo e mi convinco che è fantaeditoria...

venerdì 18 giugno 2010

Negli USA è uscito GREENDALE

Se c’è una cosa che adoro è quando un cerchio si chiude.
Anni fa (ma tanti, potevano essere dieci, non meno di otto comunque), a un intervista che sentii o lessi non ricordo più dove, Davide Toffolo, fumettista italiano e frontman della band Tre Allegri Ragazzi Morti, dichiarò che tra gli album fondamentali per la sua formazione personale e musicale stava Harvest (non so se addirittura l’avesse messo in cima alla propria classifica, ormai la memoria è quel che è) di Neil Young.
Qualche giorno fa – ecco che si svela la chiusura del cerchio – è finalmente uscito nelle librerie di tutta America Greendale, graphic novel scritta da Joshua Dysart e disegnata da Cliff Chiang, tratta dall’omonimo concept album del cantautore di Toronto, che ha strenuamente partecipato – a detta di Dysart – alla realizzazione della storia. Il massimo sarebbe una qualche dichiarazione del tipo “Fregoli di Davide Toffolo è il motivo per cui ho pensato a un adattamento di Greendale”. Non credo che accadrà, quindi mi accontento.
Venendo al punto. Non ho ancora letto Greendale ma ne ho letto un po’ oggi e, per quanto sia un po’ insolito, mi interessava ragionare su un paio di considerazioni espresse da Dysart nell’intervista condotta da Michael Lorah di Newsarama.

Partiamo dall’inizio.
Nel 2003 esce Greendale, concept album di Neil Young che ruota attorno alla famiglia Green. Personalmente non conosco l’album e non ho modo di sentirlo ora quindi mi limiterò a quello che è possibile trovare in rete. In pratica la saga della famiglia Green è ambientata in California e coinvolge temi come l’umanitarismo, l’ambientalismo e la corruzione, risentendo fortemente del post-9/11.

Così scrisse il "Washington Post" il 20 agosto 2003:
Greendale racconta laboriosamente il declino dei Green, una famiglia Californiana braccata fino alla tragedia dai media e dai poliziotti. Il guaio inizia quando il giovane Jed Green viene tirato fuori dalla propria auto per non aver rispettato un semaforo mentre trasportava una considerevole somma di cocaina e marijuana. Nel panico, invece di consegnare patente e libretto, spara a un poliziotto e finisce così in prigione. Questo porta all'attenzione frenetica delle emittenti televisive (1)
Young da sempre è interessato a raccontare la storia di persone reali, tangibili (come dirà poi anche Dysart mentre si trova al lavoro su Greendale), benché David Segal del "Post" le definisca – in questo caso – più allegoriche che realistiche.
Poi ovvio, la recensione è sempre una cosa soggettiva, quindi "The Guardian" (15 agosto 2003) lo canzona bollandolo di mancanza di senso, mentre tre giorni dopo Neil Strauss del "New York Times" lo difende, lo distingue dalle opere rock che lo hanno preceduto e, verso la fine, spende addirittura la parola “successo”.
Questo giusto per avere un’idea.

Nel 2007 Joshua Dysart inizia a lavorare all’adattamento di Greendale. Da un’intervista per Newsarama, Dysart elogia il lavoro di Young e lo mette da parte pur tenendolo stretto, dicendosi infatti interessato ad indagare la parte non raccontata dell’album. In pieno stile Vertigo, quindi, inserisce la componente mistico-magica – in qualche modo potenziando quanto già accennato dalla narrazione realista di Young – creando una storia che le contenga tutte (intendo i dieci brani che compongono il disco), che crei rimandi e connessioni ma che, per l’appunto, non si limiti ad intrecciare quanto già detto.
Questo è usare la scrittura in modo intelligente, ma del resto Dysart ci ha già dimostrato di esserlo con Unknown Soldier; non che ora si debba prendere per oro colato tutto quello che scrive, ma almeno conoscendone le potenzialità all’inizio si è consci di quello che ci si può aspettare e del livello che può avere.

Ecco. Ora siamo arrivati a quello che mi interessava considerare, al nocciolo del nostro discorso.
Michael Lorah l’8 giugno intervista Joshua Dysart, che nel finale dice alcune cose abbastanza interessanti. Già nel 2007 Dysart aveva affermato la forte politicizzazione di Greendale. A distanza di quasi tre anni il senso di questa presa di posizione si fa più esplicito.
La domanda conclusiva che Lorah pone a Dysart è la seguente:
Greendale uscì nel 2003 e fu fortemente influenzato dall’accumularsi della guerra in Iraq e della politica di G.W. Bush. Pensi che l’album, e per estensione la graphic novel di Greendale, mantenga la propria rilevanza ai nostri giorni? (2)
La risposta dell'autore:

Questa è la grande domanda. Questo è ciò con cui ho lottato. Questo libro è di qualche rilievo? Lo stavo scrivendo nel 2007, e anche allora mi ponevo la stessa domanda. Così ho cercato di renderlo specifico per l’epoca, ma anche legato al grande arco politico di questo paese e all’arco politico delle persone in generale. Ho visto alcune recenti recensioni su Amazon e la gente si lamentava del fatto che fosse un attacco all’amministrazione Bush. Quella non era esattamente la mia intenzione. Era mia intenzione attaccare – per mancanza di un termine migliore – l’impostazione mentale dei conservatori. […] Ti dico qualcosa di interessante, però: quando sono tornato a lavorarci per il lettering e ho notato come ho scritto le battute di Sun – e sono battute che ho scritto nel 2007 – utilizzando un sacco di parole chiave ora utilizzate da Obama. Speranza e cambiamento. Ho pensato che era davvero interessante. Era affascinante che fossimo incappati nelle tematiche di cui la sinistra era affamata, perché quel linguaggio per Obama aveva decisamente funzionato. Lo stavamo usando nel 2007 e questo mi da qualche speranza di aver trovato nel libro una connessione senza tempo alla politica[…] Un altro esempio è come nel demonizzare le compagnie petrolifere abbiamo trovato un villain senza tempo… come è stato messo in evidenza dall’incubo del Golfo proprio ora. (3)


Una storia, quindi, in grado di andare oltre i tempi, grazie al suo concentrarsi su problematiche che, come dice l’autore, sono sempre attuali, forse delle vere e proprie costanti nella storia dell’uomo (perlomeno dal momento in cui compaiono). Una storia che già al momento zero ci restituisce un’idea di come le cose da cambiare, di fatto, poi non cambiano. Una storia che segna un giro di boa per il lassismo di una classe politica nell’affrontare in modo serio ed efficace tutta una serie di problemi. Una storia che, volente o nolente, per caso o per scelta – mai credere in tutto e per tutto a quello che uno scrittore dice a un intervistatore – si inserisce nel solco di un (tentativo di) cambiamento, e che anticipandone i punti chiave mette in luce come proprio questi siano i punti su cui vale la pena di impegnarsi.

Aspetto di poterlo leggere e poi se ne parla meglio… o forse no, ma comunque vi saprò dire se soddisfa le aspettative.



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(1) "Greendale" laboriously recounts the decline of the Greens, a California family hounded to tragedy by the media and the cops. The trouble starts when young Jed Green is pulled over in his car for a taillight violation while toting considerable sums of cocaine and pot. In a panic, instead of handing over his license and registration, he shoots a cop, landing himself in jail. This leads to a frenzy of attention from the TV stations

(2) Greendale came out in 2003 and was heavily influenced by the build up to the war in Iraq and the policies of George W. Bush. Do you think that it, and by extension the graphic novel Neil Young’s Greendale, retains its relevance today?

(3) Man, this is the big question. This is the thing that I wrestle with. Is this book relevant? I was writing it in 2007, and I even asked myself this question then. So I tried to make it specific to the era, but also about the greater political arc of this country and the political arc of people in general. I have seen on some early reviews on Amazon and stuff people bitching that it’s an attack on the Bush administration. That actually wasn’t my intention. It was my intention to attack – for lack of a better term – the conservative mindset […]I’ll tell you something interesting though: when I went back to finally do a lettering pass, and I saw how I wrote Sun’s speech – and I wrote that speech in 2007 – it used a lot of the key phrases that Obama now uses. Hope and change. I thought that was really interesting. It was fascinating that we sort of tapped into what the left was hungry for, because it definitely worked for Obama, that language. We were using it in 2007, and that gives me some hope that we found a timeless arc to the politics in the book […] On another note, in demonizing the oil companies we definitely found a timeless villian ... as evidenced by the nightmare that's happening in the Gulf right now.

mercoledì 9 giugno 2010

Berserk 67 OVVERO: come NON scrivere un fumetto.

Berserk 67 (2010, Panini comics / Planet manga, brossurato, 112 pagine in bianco e nero, €2,20).
Sceneggiatura e disegni di Kentaro Miura.

No, davvero. Un numero di cui si poteva fare volentieri a meno, se non completamente almeno in parte. Per carità, qualcosa di buono c’è, a livello concettuale, ma è proprio il modo in cui viene concepito il numero che mi fa pensare ad esso come ad un cattivo esempio di scrittura a fumetti.

Nei numeri precedenti avevamo lasciato Gatsu e soci al loro viaggio in nave, mentre a Windom l’esercito delle Midlands si apprestava ad affrontare la minaccia di Ganishuka, apostolo rinato in un tronco tentacolato.
Ok.
Il numero 67 punta l’attenzione sullo scontro tra la Squadra dei Falchi e l’armata apocalittica di Ganishuka. Eccettuate le prime venti pagine circa, che concludono il capitolo Un frastuono nel cielo e un intermezzo inutile (ma non totalmente) con Sonia, tutto il numero è incentrato sulla battaglia, cosa che di fatto ha un suo perché e ci riporta al Berserk delle origini. Tuttavia Miura sceglie di prodursi in una serie di splash page in cui il rigore e la cura della parte grafica altro non fanno che aumentarne la confusionarietà.
Più che un capitolo di Berserk a me è sembrato di sfogliare un catalogo di illustrazione fantasy a cui, per caso (o per sbaglio), qualcuno avesse deciso di affiancare del testo. Ma un fumetto non può e non deve essere un catalogo, perchè per quanto l'illustrazione sia una delle due componenti del linguaggio fumettistico ne è solo una parte; l'illustrazione a sè stante è altra cosa, ha altre basi, altre finalità e altre potenzialità (che non vorrei sembrare troppo supponente nel dire che qui, in questo preciso caso, vengono tutte tradite).
Oltretutto la mia personale impressione è che Miura stia perdendo colpi nel disegnare mostri, che risultano di numero in numero più banali, nel vero e proprio senso del termine, come se una massa con qualche occhio e qualche dente fosse sufficiente a definire il mostro. Questo ad eccezione del rinato Ganishuka, la cui evoluzione personalmente è terrore puro incarnato nella semplicità e nella statuarietà: Miura strizza decisamente l’occhio all’incisione nella creazione di alcune delle tavole (seppur con qualche inserto trascurabile) più cupe degli ultimi anni.
Giunti alla fine di una battaglia che, volenti o nolenti, dura non più di cinque minuti, ci si sente un po’ presi in giro e la speranza è che l’autore si decida a mettere la parola fine a quello che ormai sembra solo accanimento terapeutico; confezionato con grande cura, certo, ma pur sempre accanimento terapeutico.

Ora.
Due cose mi sono sembrate interessanti, anche se forse eccessivamente retoriche. La prima è il discorso con cui Sonia riprende l’esercito delle Midlands, terrorizzato dai Guerrieri Diabolici di Grifis:
“Che siano uomini o mostri che importanza ha?! […] Chi sta versando il proprio sangue in questo momento?! Chi sta sacrificando la propria vita?! Sono uomini?! Sono mostri?! Non è questo che importa! L’importante è se combatterete o no a fianco di Grifis! Perché questa è la squadra dei falchi!”

È un passaggio interessante per il messaggio (se così lo vogliamo chiamare) che contiene. L’alterità, sia essa terrena o ultraterrena, non dovrebbe essere ghettizzata solo perché diversa. Quello che conta è l’ideale. Sembra di tornare al nocciolo del fumetto supereroi stico e ai suoi concetti base.
Motivo a cui aggancio la seconda e ultima considerazione. Per numeri e numeri, dalla fine del flashback, Miura ha continuato a narrare seguendo le direttive Gatsu=buono, Grifis=cattivo. Pian piano, poi, ha iniziato a rovesciare questo sistema di assi, mostrandoci la degenerazione di Gatsu, che scivola verso qualcosa di sempre più oscuro, e la seconda beatificazione di Grifis, ritornato alle Midlands come un Cristo in armatura lucente, ma il cui esercito è composto da uomini mostri.
Kentaro Miura scombina i riferimenti del lettore, muta il bianco in nero e il nero in bianco e poi entrambi in grigio. Dove sta allora il giusto? In una macchina da guerra sempre più deviata e mossa dalla vendetta o in un bolo di bene e male che si erge a paladino degli oppressi?

martedì 1 giugno 2010

Perchè non si smette mai di imparare...

... ma io sono recidivo.



E poi sono distratto.
Fattostà che in seguito alle indicazioni di senility, con grande gioia del mio arto impacciato, ho rifatto le vignette della settimana scorsa.