giovedì 26 novembre 2009

GHOST WORLD

GHOST WORLD (1998; edizione italiana 1999 Phoenix, 80 pagine in bianco nero e azzurro, € 7 o; ultima edizione reperibile 2007 Coconino Press, 88 pagine in bianco nero e azzurro, € 17)
Sceneggiatura e disegni di Daniel Clowes.

Prendete Mafalda e Lucy VanPelt, diplomatele al liceo, caricatele delle esperienze, del cinismo e delle (dis)illusioni che possono aver maturato fino ai diciotto anni e avrete Enid e Rebecca, le due protagoniste di Ghost World.
A zonzo per un’America da commedia suburbana le due ragazze vivono come una vita parallelo, che prende piede dall’interpolazione delle loro esperienze, dalle considerazioni più svariate su luoghi, persone, tendenze, dei loro sogni e del loro presente, di poco meno incerto del loro futuro.
Otto frammenti di vita quotidiana e da cui emerge un’America grottesca, ricettacolo di amenità e stranezze, nonché vero e proprio catalogo di aspetti della cultura statunitense (numerosi i riferimenti al mondo dello spettacolo, della musica, ai trend e ai veri stili sociali). Clowes fa tutto in modo molto delicato, e cuoce a fuoco lento, portando le due ragazze ad una ulteriore maturazione e a una definizione (benché ancora con angoli bui) del loro rapporto, fino a riconsegnarcele, nelle ultime pagine, pronte ad entrare d’ufficio nel mondo adulto, nel mondo fantasma.

È impossibile non notare, nello stile di Clowes, una forte influenza dei fumetti underground degli anni Sessanta, quelli che venivano chiamati comix e che avevano come autore di punta Robert Crumb, padre (e padrone) di Fritz the cat. Underground il contenuto, underground la forma, underground il modo.
Come molti altri autori, di risposta alle major, Clowes sceglie di accantonare il macro per concentrarsi sul micro; un micro che sembra quasi un mondo ancora incontaminato. L’ironia è amara e sboccata, e basta grattare appena la superficie per avere le prime avvisaglie di malinconia per un ecosistema perduto, o che comunque sta per essere inghiottito dalla società moderna.


giovedì 19 novembre 2009

V For Vendetta

V FOR VENDETTA (1988-89; edizione italiana 2006 Rizzoli 24/7, 304 pagine in bianco e nero).
Sceneggiatura di Alan Moore, disegni di David Lloyd.


Un capolavoro. Leggetelo.

Si potrebbe chiudere qui. Il senso di qualsiasi cosa potrei scrivere in seguito ben si sintetizza in quelle tre parole. Potrei chiudere e mettermi a fare dell’altro, che il senso non cambierebbe.
Tuttavia chi mi conosce, chi mi legge o mi ha letto, chi ha parlato con me sa che, benché non generata da una totale conoscenza delle sue opere, ho il brutto vizio di incensare Alan Moore (assieme a pochi altri) e a metterlo sempre sul piedistallo più alto.
Vedendo quindi di chi e di cosa si sta parlando, queste persone potrebbero pensare “si vabbè, la solita spacconata su Moore” e per questo sceglierò di motivare quanto scritto lassù.


V for Vendetta è la prova lampante di come un fumetto possa essere intrattenimento alto e produttore di cultura. Ma ancora di più ci mostra come un fumetto possa essere eterno e contemporaneo, attuale; ci mostra come una critica di vent’anni fa sia applicabile ad una situazione storica presente e, volendo esagerare, come la storia tenda a ripetersi nelle sue situazioni cardine.
Lo stesso fil rouge scatenante è la riproposizione di una situazione storica, il tentativo di Guy Fawkes di far detonare il Parlamento inglese nella notte del 5 Novembre 1605; ed è esattamente 392 anni dopo, il 5 Novembre 1997, che il misterioso V riesce laddove Fawkes aveva fallito, annunciando così l’inizio della sua guerra alla dittatura dei Fuochi Norreni. Una guerra che vede le sue radici e motivazioni nel passato dello sconosciuto vigilante che veste i panni dell’antico rivoluzionario.
Ambientato in un’Inghilterra distopica, in cui una dittatura fascista ha preso il potere (rievocazione e denuncia dell’Inghilterra thatcheriana), V for Vendetta ci mostra una società piegata in ogni suo pilastro (le libertà personali e collettive, l’informazione, la religione, il lavoro, l’economia, l’etica e la morale). Società cui l’”eroe” – molto più vicino ad una concezione anni ’30 dell’eroe, più un Mandrake in maschera, benché con uno humour tutto personale e giochi di prestigio più pirotecnici, che un Superman – è deciso a dare una spallata. Il suo lungo persistere nel suo piano di vendetta e instaurazione di una nuova società sui detriti detonati della precedente è il chiaro segno di come il mutamento arrivi solo attraverso una “educazione al mutamento”, e non con un coup improvviso. Un’esplosione non sarebbe servita poi a molto. Una successione potrebbe fare la differenza, ma è necessario che la società ne capisca il peso e l’importanza, e sia pronta a raccoglierne l’eredità.
La dittatura è un elemento importante di tutta la narrazione, oltre a rappresentarne il setting, poiché fa chiaro riferimento all’inghilterra della fine degli anni Ottanta, con l’amministrazione Thatcher, antieuropeista (per non dire fortemente nazionalista) e settarista, volta alla creazione di una middle-class forte e privilegiata, in un circolo vizioso per cui l’una avrebbe garantito a vita l’esistenza dell’altra. Come vorrebbe Fuoco Norreno (e il suo Fato, il supercomputer da cui viene generata ogni decisione) “Strength through purity, purity through faith”. Un giro di vite fu dato anche al sistema di sicurezza nazionale, rafforzato in modo preoccupante, tanto da temere di essere sull’orlo della dittatura; tanto da convincere Moore e Lloyd (sua infatti fu l’idea di rendere V un novello Guy Fawkes) della necessità di una simile sceneggiatura di denuncia.


V for Vendetta è un’opera titanica, in cui il destino di diverse persone si intreccia e, come nelle migliori coincidenze, concorre alla creazione di un nuovo assetto sociale e culturale. Oscilla tra episodi scritti in modo “canonico” ad altri in cui forti sono l’impianto retorico e simbolico attorno a cui viene costruita la narrazione.
Lloyd. V for Vendetta non avrebbe avuto lo stesso peso, credo, non fosse stato per David Lloyd. Perché è una storia cui il disegno aggiunge moltissimo. Lo dovete leggere in bianco e nero, però, necessariamente. V for Vendetta è una storia di luci e ombre e, pertanto, è fondamentale che venga letto in bianco e nero, che è regno incontrastato di David Lloyd. Viceversa non avrebbe lo stesso impatto; il colore, in questo caso, distrae, e castra il potere grafico e narrativo di questo grande autore che, abile, prende macchie nere e macchie bianche e le dispone in un modo che una esca dall’altra e assieme creino una figura. L’intera sequenza della tortura, liberazione ed epifania di Evey non avrebbe lo stesso peso a colori; davvero, non riuscirei ad immaginarla. Lo stesso vale, ad esempio, per le due tavole quasi mute in cui V incontra Derek Almond: è il disegno che parla, è il bianco che dialoga col nero, mentre i riflessi danzano nell’oscurità e la luce brucia i contorni. Lo stile di Lloyd costringe il lettore a prestare più attenzione a quello che sta leggendo, a quello che accade; in questo modo egli è costretto a soffermarsi più tempo sulle tavole, e può così coglierne ogni dettaglio, ogni finezza, ogni particolare nell’espressione.


È interessane vedere come Moore, in un momento in cui la situazione sociale dell’Inghilterra si fa preoccupante, arrivando a minacciare una svolta totalitaria, tiri fuori dal cilindro il più grande terrorista politico britannico. La sottolineatura della situazione socipolitica è evidente e viene quasi da pensare ad un auspicio che le nuove generazioni decidano di seguire le impronte di Fawkes; fortunatamente, poi, con il passaggio di poteri dalla Thatcher a John Major non si è sentito il bisogno di un forte sovvertimento dello status quo, tanto meno con l’avvento, nel 1997, di Tony Blair.

Chi ha visto il film e l’ha apprezzato si dimentichi della sua ingenuità e si tuffi nell’intreccio. Chi ha visto il film e non l’ha apprezzato dia una possibilità a questo libro, perché ne vale veramente la pena.

mercoledì 11 novembre 2009

DMZ

Ogni giorno è il 9/11. È una delle prime cose che si nota all’interno dell’assetto militaresco della serie dello scrittore rivelazione Brian Wood.
DMZ è stato – ed è tutt’ora – una folgorazione. Una folgorazione il cui unico problema potrebbe essere il rischio di un lento deterioramento numero dopo numero.
Gli Stati Uniti si trovano spaccati a metà e in lotta tra di loro. Da una parte gli Stati Uniti d’America, dall’altra gli Stati Liberi. Nel mezzo Manhattan, la DMZ, la zona demilitarizzata, da cui le truppe si sono ritirate e in cui gli abitanti sono stati lasciati al loro destino. Nel mezzo Matthew Roth, giovane giornalista freelance che, trovatosi lì per caso, sceglie di rimanere e raccontare la vita di Manhattan, il luogo dove Ground Zero è solo un piccolo pezzo di un più grande Ground Zero.
La guerra civile, nonostante sia il motore della maggiorparte delle situazioni, non è altro che lo sfondo delle situazioni in cui si trovano a vivere Matty e i vari personaggi che gli gravitano attorno.
Tematica sicuramente degna di nota, che spicca sulle altre e fa da trait d’union ai vari albi, è quella legata al giornalismo come ricerca della verità. Wood scherma Matty dietro ad un ideologismo giornalistico ormai perduto, che vuole il giornalista non schierato e assolutamente fedele all’avvenimento raccontato. Quando scoppia una guerra la prima vittima è la verità; Mattew Roth sembra, in DMZ, essere l’unico ad interporsi realmente tra le beghe militari e la verità, impedendo – o sforzandosi di farlo, nonostante il fuoco, i calci, il sapore del sangue in bocca – che questa venga in qualsiasi modo manipolata da consorterie di ogni tipo.

In quello che è un vero e proprio calderone storico, DMZ unisce tra le sue pagine alcuni degli elementi più caldi della storia americana, a partire dalla guerra civile, che qui è nuova e tecnologica, ma non per questo meno brutale e sanguinosa; l’11/09, punto di svolta nella storia degli USA, la fine dell’inattaccabilità e l’inizio della reazione; le elezioni Bush-Kerry, che se in realtà si limitarono a spaccare in due l’opinione pubblica, su queste pagine vengono portate all’estremo sotto forma di due fazioni opposte; la guerra in Afghanistan e, soprattutto, in Iraq.
Con una manovra astuta, oltretutto, Wood sembra voler trasportare il conflitto iracheno sul territorio statunitense, in un meccanismo sincretico che potenzia il significato della guerra (e, in particolare, di quella specifica guerra) rendendola paurosamente vicina a chi l’ha voluta.
Del resto la guerra civile primeggia tra i sintomi di malattia di uno stato, grazie anche al fatto di essere potentemente e spaventosamente evidente, quindi è ben lecito pensare che il messaggio di Brian Wood sia, come tanti altri suoi colleghi scrittori, un messaggio di denuncia nei confronti di un paese che ormai sta perdendo l’orientamento.
A Manhattan, invece, l’orientamento è bell’e andato, perduto, e la società che ne deriva cerca di trovarne uno nuovo per arrivare alla fine della guerra, o anche solo a fine giornata.
In questo senso diventa fondamentale il lavoro alle matite di Riccardo Burchielli, che ritrae questa società sui generis in tutta la sua caoticità, seppure, al contempo, riuscendo a razionalizzarla e a coscriverla all’interno di bizzarri – e quasi assurdi – tagli prospettici.



Bibliografia:
DMZ vol. 1-5 (2006-2008; 2007-2009 edizione italiana, Planeta DeAgostini, 128-168 pagine a colori, € 10,95-12,95)
Testi e copertine di Brian Wood, disegni di Riccardo Burchielli.


giovedì 5 novembre 2009

Pausa

... una settimana di sospensione dovuta ad un'operazione interessante di cui vi farò sapere nei prossimi giorni...