giovedì 29 ottobre 2009

Rat-Man


Questa settimana mi trovo a fare un'intervento un po' diverso dal solito.
Niente recensioni, analisi o quant'altro, solo cinque minuti per fermarsi e pensare.

Ieri sono stato a un incontro con Leo Ortolani e, in una selva di classiche domande banali da incontro, è stata illuminante una frase di Ortolani che faceva più o meno così:«Quando iniziai a scrivere Rat-Man pensavo che un fumetto comico dovesse solo fare ridere. Poi mi sono accorto che non era sufficiente».
Ortolani è uno che ha capito tutto.

La mia impressione principale, purtroppo, è che la gente, mesmerizzando su di lui il contenuto di Rat-Man, lo consideri un pagliaccio. Ortolani, invece, che di sicuro un pagliaccio non è, dimostra invece di essere un ottimo giullare. In perfetta confidenza con la propria arte (che, comunque, non significa che le storie calino dall'alto, poiché la ricerca e lo sforzo sono qualcosa con cui è inevitabile trovarsi a fare i conti), il giullare era una sorta di televisione intelligente, che non mancava mai di punzonare il signore che lo ospitava alla sua corte. Ortolani è un giullare e la sua corte è ampia e comprende diversi aspetti della vita del nostro paese.

La presa di coscienza di Leo Ortolani sulla situazione di Rat-Man e, in generale, della comicità, è facilmente estendibile (e dovrebbe essere allargato con più solerzia e attenzione) al fumetto in generale. Il che può essere letto come "per essere efficace il fumetto ha bisogno di altro al di là di quello che racconta".
Una di queste cose è la volontà di dare un indirizzo a chi legge, è un progetto che abbia un inizio e, necessariamente, una fine, che segua un percorso e punti a qualcosa di preciso. In Rat-Man questo c'è, come lo stesso Ortolani ha chiaramente affermato: è un percorso che necessariamente deve essere chiuso (questo, teoricamente, non solo per il personaggio ma anche per l'autore) se vuole avere un senso reale; e se quindi Rat-Man doveva concludersi con una presa di coscienza del protagonista che lo portasse a poter finalmente essere se stesso e non dividersi tra vita reale e vita supereroistica, configurandosi quindi come una sorta di romanzo di formazione, per quanto il bersaglio sia cambiato il progetto resta.

Ortolani è uno che ha capito tutto, perchè ha capito che per fare fumetti bisogna guardarsi attorno, perchè se ognuno guarda solo il proprio percorso non si va da nessuna parte.

Il governo annuncia oggi che la crisi inizierà a finire, ed è difficile crederlo quando una simile affermazione è, con netta probabilità, vincolata esclusivamente ad una matrice economica e finanziaria e che il piano per la rinascita non passa per un'analisi attenta dei problemi della gente comune.
Stamattina camminavo per strada e ho assistito a questa scena: una signora, per rincorrere un autobus, ha inavvertitamente fatto cadere il cellulare che - come è ovvio - si è aperto in tre parti (le due parti della scocca e la batteria). Stamattina, per la prima volta in vita mia, ho visto un autobus fermarsi realmente e attendere una persona che aveva bisogno.

Che senso ha questo?
Credo che il senso sia: il fumetto non deve promettere ma, casomai, lasciare intravedere quale può essere la possibile via d'uscita; il fumetto non deve fare promesse ma deve osservare e fare riflettere.

giovedì 22 ottobre 2009

ATOMIC ROBO

ATOMIC ROBO nr. 1 (2007-2008; edizione italiana 2009, 184 pagine a colori, € 16)
Sceneggiatura di Brian Clevinger, disegni di Scott Wegener.

Non sono tante le serie occidentali dedicate a robot dotate di una vera ragion d’essere. Così, su due piedi mi viene in mente il Popbot di Ashley Wood, ma se cerco di andare oltre è nebbia. Deathlock della Marvel, quando c’era Sienkiewicz. Poi vuoto… tutto il resto è orientale.
Poi un giorno sugli scaffali appare questo Atomic Robo, che già dalla copertina colpisce: un robot aggredisce un mucchio di altri robot brandati con la bandiera sovietica o cinese, stringendo in mano un missile. Impossibile non pensare “cazzo, questa è roba forte!”. Addentrandosi nella lettura questo sentore si amplifica, non appena si fa la conoscenza del protagonista. Costruito da Nikola Tesla nel 1923, Atomic Robo è, ai nostri giorni, direttore della Tesladyne, azienda che punta a spingere all’estremo l’uso di scienza e tecnica in qualsiasi sua applicazione. Oltre a questo l’imprenditore atomico è anche un agente sul campo che, affiancato dagli scienziati combattenti della Tesladyne, affronta ogni forma di ignoto e di minaccia.

“Wizard” l’ha definito l’incrocio di Indiana Jones e Iron Man. Personalmente, da quando l’ho letto, ho sempre voluto considerarlo come un Hellboy di successo.
Cosa accadrebbe se Hellboy fosse a capo del B.P.R.D. (e, ovviamente, se fosse un robot)?
Atomic Robo riporta in auge il fumetto d’avventura in quello che sembra un incrocio tra "Weird tales", i war comics degli anni Cinquanta-Sessanta e un Hellboy di latta, forse un po’ meno cinico e incazzato con la vita. In effetti quello che caratterizza fortemente il personaggio di Atomic Robo è la sua assoluta umanità. Se – tanto per restare lì – Hellboy è segnato da un costante conflitto interiore dovuto al suo non sentirsi umano, Atomic Robo vive la sua diversità in modo sereno, e probabilmente risulta molto più umano di tanti altri personaggi. Non è una macchina; fa battute, si indigna e addirittura – e non è cosa da poco – indossa vestiti. Mi ha colpito, per quanto semplice, l’idea di un robot che, in missione contro i nazisti, si presenti in uniforme, o che sfoggi una t-shirt durante un’intervista o un briefing. Sono piccoli dettagli apparentemente irrilevanti ma conferiscono sempre maggior spessore al personaggio.
Il tutto viene condito da una dose di umorismo e siparietti che hanno del meraviglioso e non risultano per niente forzati.

Le situazioni in cui si trova ad agire spaziano tra i normali scenari di guerra – in cui lo vediamo muoversi durante i flashback – a fronteggiare scienziati pazzi nazisti e insetti giganti che sembrano sbucare fuori dai film di fantascienza degli anni Sessanta.
Ovviamente in tutto questo c’è ben poco di originale. Robot e avventura sono due pilastri sui quali il fumetto campa da decenni e decenni, ma è la freschezza e la spontaneità con cui Clevinger e Wegener riescono a raccontare le gesta di Robo a renderlo più piacevole di tante altre cose. C'è una comicità quasi da sit-com che sostiene la narrazione, di quel tipo che gioca con le variazioni sul tema in modo intelligente e che sa cosa siano i tempi comici, pur essendo un fumetto d'avventura.
Certo, questo primo volume ha anche i suoi lati negativi, vale a dire sostanziali buchi di narrazione o situazioni appena accennate verso cui non si può che sperare in uno svelamento. Non resta che incrociare le dita nella speranza che il secondo volume tappi un po' di questi buchi e, nel frattempo, godersi quella che è indubbiamente un'ottima lettura.

giovedì 15 ottobre 2009

SEGRETI (LE LEGGENDE DI BATMAN n.11)

SEGRETI (LE LEGGENDE DI BATMAN n.11) (2006; edizione italiana 2007, Planeta DeAgostini, 128 pagine a colori).
Sceneggiatura e disegni di Sam Kieth.

Ho sempre trovato che il potere della DC Comics fosse negli albi non-regolari, nelle storie parallele o in quelle interstiziali, che si incuneano tra una storia e l’altra e chiarificano, svelano, approfondiscono. Credo che questo Segreti sia una di quelle storie, una storia fuori continuity ma dal grande spessore simbolico.

La trama è abbastanza semplice e, se vogliamo, canonica: il Joker, uscito di prigione, gioca a fare il pentito e, allo stesso tempo, cerca di incastrare Batman in una serie di crimini. Per fare ciò è aiutato da Terry,
assistente del defunto procuratore distrettuale infatuatasi del criminale, e, anche se non del tutto volontariamente, Mooley Williams, amico d’infanzia di Bruce Wayne e capo-redattore del “Sentinel”.
A fianco del complotto per incastrare Batman e al fil rouge del segreto, che attraversa tutta la storia creando un piacevole collegamento tra il passato e il presente, troviamo quindi un’interessante speculazione sul mondo dell’informazione. L’informazione che fa di tutto pur di emergere, anche raccontare notizie false o alterate; la facile manipolabilità dell’informazione fotografica e la maggiore attendibilità di quella video (Kieth rilegge Peter Burke?), e come l’informazione manipolata venga utilizzata per pilotare l’opinione pubblica in un mondo in cui i media, abbattendo i confini, rendono il mondo claustrofobico e si propongono come l’unica fonte di verità, o perlomeno la più credibile.

Segreti poteva essere una storia di quattro pagine, mentre, grazie al tocco di Sam Kieth, ne è uscita una di oltre centoventi. Lo stile dell’autore si fa qui più schizofrenico e postmoderno (postmodernista?) rispetto al Kieth che avevamo apprezzato (a dir la verità nemmeno tutti lo avevano apprezzato) nel primo storyarc del Sandman di Neil Gaiman, in The Maxx, o sulle pagine di Venom. Segreti sembra il frutto della lezione di un grande autore come Bill Sienkiewicz, per la molteplicità di stili utilizzati e per li modo in cui l’autore riesce a farli convivere. Il tratto usualmente nevrotico e inchiostrato di Kieth si trova dunque a convivere con una sua estremizzazione più acida fatta di macchie, graffi e scarabocchi, ad una colorazione tradizionale si affianca una colorazione digitale, verso un processo sincretico in cui le due cose si fondono accanto ad inserti fotografici, stereotipia delle immagini, deformazioni digitali, scritte dal sapore urbano che ricordano quelle che compaiono su muri, bagni, manifesti. Questa multiforme espressività, mescolata allo stile fortemente riconoscibile di Kieth e al suo modo di gestire la tavola (che fonde una gestione tradizionale all’uso di doppie splash page e a una gestione più dadaista della pagina) aiuta il lettore a calarsi in un’atmosfera di disagio che è propria del suo tempo, in cui tutto è rapido, in cui non c’è più un orientamento unico ma ci sono infiniti punti di riferimento che si sommano, si contraddicono, si distruggono, creando se possibile un disorientamento ancora più grande; una società in cui la manipolazione dei valori per mano dei media li ha stravolti a tal punto che il buono sembra cattivo e viceversa, il giusto sbagliato, e tutto si appiattisce e si livella all’interno di una cornice in cui passato e futuro coesistono. Per questo il Joker, che col passare degli anni incarna sempre più la dissociazione mentale della società contemporanea, si fa villain d’eccezione, ergendosi al di sopra del sistema dell’informazione e manipolandolo; un Joker che rare volte è stato reso così frammentato, inquietante e iconicamente potente.
Ritornando a bomba sulle dinamiche espressive e sul rapporto tra passato e futuro, è interessante notare come in Segreti il passato e il futuro dell’espressività grafica fumettistica si uniscano in un divertissment dell’autore che, in un volume fortemente caratterizzato da uno stile che non si affermerà prima della fine degli anni Sessanta (si pensi ad Alberto Breccia e al suo Eternauta, o al già citato Sienkiewicz, che si serve di questo pastiche postmoderno solo diciassette anni dopo il lavoro di Breccia) sceglie di omaggiare The Spirit di Will Eisner realizzando un titolo integrato con la tavola (la parola “Secrets” viene disegnata come se fosse un vecchio palazzo di mattoni rossi, sul cui fianco compare la scritta “Will rules”) e dando a Mooley Williams l’aspetto del Commissario Dolan, capo della polizia di Central City.
Poteva essere una storia di quattro pagine. Il buono sta tutto nel valore aggiunto, nello scavo, che poi è quello che ho imparato ad apprezzare in casa DC. Una storia che aggredisce il suo tempo. Una storia che, senza ombra di dubbio, vale la pena di leggere e rileggere.

lunedì 12 ottobre 2009

PUBBLICITA' ovvero: grandi auto-pacche sulle spalle

Il blog della Scuola Internazionale di Comics di Padova mi linka e mi dedica un post.
Per il mio essere un puntino infinitamente piccolo è un successo.

giovedì 8 ottobre 2009

Mr. WIGGLES

MR. WIGGLES (2007, Fusi Orari, brossurato, 94 pagine in bianco e nero, € 8,50).
Sceneggiatura e disegni di Neil Swaab.


Alle prime dieci pagine lo odierete a morte. Rimpiangerete l’acquisto, vi verrà voglia di strappare ogni pagina e incendiarla e poi rovesciare le ceneri e tirare lo scarico.
Tenete duro. Dopo un po’ inizierete a vederlo diversamente. Certo il protagonista, l’orsacchiotto Mr. Wiggles, è un personaggio che definire scomodo è eufemistico. È al di sopra di ogni legge e di ogni morale, ha le mani in ogni traffco illegale e fa qualsiasi cosa che chiunque altro riterrebbe scorretta, immorale o troppo stupida / schifosa / disgustosa. Spalla del vizioso orsacchiotto è l’autore, che gli offre il fianco per ogni genere di scherno e che dialoga con lui con il ruolo classico dello scemo nel duo comico. Solo che la comicità di Mr. Wiggles oltrepassa i canoni, affrontando tematiche ritenute scomode con un linguaggio tagliente e sopra le righe, provocatorio a tal punto che, anche senza le note di quarta di copertina, diventa evidente durante la lettura che il lavoro di è mosso da un intento di denuncia.
L’autore mette così a nudo dalle piccole imperfezioni della società fino ai grandi mali che la attanagliano, concentrando il tutto nella figura di Mr. Wiggles, simulacro per eccellenza di ciò che è sbagliato, vizioso, malvagio. Dal politically uncorrect alla volgarità a sfondo sessuale fine a se stessa, in un’alternanza di temi e situazioni che non risparmiano nemmeno le minoranze o Dio (che l’orsetto definisce “un altro padre assente”), addentrandosi nella lettura si riesce a discernere i momenti di pura demolizione a quelli di “demolizione costruttiva”, che mirano a mettere in luce aspetti ed elementi della società contemporanea affetti da qualsivoglia tipo di morbo.

Con uno stile grafico e una scelta di inquadrature e gestione della strip che ricorda molto i comix à la Friz the Cat di Robert Crumb, Mr. Wiggles ne sembra in qualche modo voler raccogliere l’eredità, eredità che nel corso degli anni si è ingigantita, vuoi per il processo di globalizzazione, vuoi per la caduta di molte barriere e molti tabù, vuoi per la scoperta di nuove tecnologie e l’aggiunta di nuove perversioni al mucchio. Allo stesso modo di Fritz, Mr. Wiggles è schiavo del proprio tempo, una schiavitù che egli sembra accettare ben volentieri, come il suo statico viso di orsacchiotto di pezza ci testimonia, aspetto che rende ancora più grottesco il modo in cui vengono affrontate certe tematiche o vengono approfonditi certi dettagli scomodi.
Insomma, se avete lo stomaco debole non leggetelo, se vi incazzate subito non leggetelo, se siete emotivamente instabili non vi ci avvicinate nemmeno. Ma se avete un po’ di fegato provate l’intera esperienza Mr. Wiggles e alla fine non ne sarete del tutto pentiti; alla peggio vi sarete fatti quattro risate con un po’ di humour nero prima di chiudere l’albo e tornare ad un’esistenza patetica in cui – eh già – potrete ritrovare buona parte degli elementi affrontati da Swaab.

giovedì 1 ottobre 2009

Gyakushu vol. 1 e 2

GYAKUSHU! vol. 1 e 2(2007-2008; edizione italiana 2009, 192 pagine in bianco, nero e toni di grigio, € 7,50)
Sceneggiatura e disegni di Dan Hipp.


In attesa che il terzo volume esca a salvare la situazione ecco qualche considerazione nervosa su quanto riportato in quarta di copertina sui primi due volumi.

Vol 1:
“Sembra scritto da Quentin Tarantino” IGN.COM
Mah. No, direi proprio di no, a meno che tutto quello che è minimamente pulp sia ascrivibile a Tarantino, corrente che, tra l’altro, ha radici precedenti. E poi Tarantino avrebbe scritto dei dialoghi migliori.

“Il figlio illegittimo di Moby Dick e Kill Bill” POPCULTURESHOCK.COM
Ok, chi dei due ha tradito? Perché se no, non c’entra una mazza con Tarantino non vedo come potrebbe farlo con Kill Bill, se non forse per le spade, tantomeno c’entra con l’opera di Melville… voglio dire… solo perché c’è una balena, peraltro del tutto priva dell’importanza che la balena bianca aveva nel romanzo?
Quanti film con spade o balene sono stati fatti negli ultimi cento e più anni? Quelli di Popcultureshock avrebbero potuto benissimo scrivere “il figlio illegittimo di Pinocchio e Berserk” e ci avrebbero già preso di più (visto che il protagonista è un contaballe che viene inghiottito masticato un po’ da una balena e che diventa una sorta di incrocio tra Marv e Gatsu).

Vol. 2
“Chiamarlo il ‘Tarantino del fumetto’ non rende giustizia al suo clamoroso talento” Corriere della Sera
“Suo” di Tarantino, spero. Perché non ci vedo molto talento narrativo in Hipp, cosa che invece si potrebbe dire graficamente. Ma tanto è il Corriere, che cazzo ci capiscono quelli di fumetti. Al massimo per loro il fumetto è qualcosa da vendere come allegato quando tira. Mi aspetto che l’articolo su Inglorious Basterds porti come occhiello “Il ritorno del 'Dan Hipp del cinema'”.

“Scordatevi i manga, scordatevi i fumetti… questa è semplicemente una storia eccezionale” IGN.COM
Discutibile.
Ma cosa significa “scordatevi i fumetti”?!? Ok per “scordatevi i manga”, dei quali ha soltanto la dimensione del volume; del resto, essendo un prodotto occidentale perchè chiamarlo "fumettogiapponese"? A parte questo è molto facile scordarsi i manga visto che il tratto è troppo pop-USA, la lettura è all’occidentale e l’autore e l’editore NON SONO GIAPPONESI.
Ma “scordatevi i fumetti”? Cazzo, è un fumetto, no? E allora?
Forse vuol dire che posso tranquillamente scordarmelo una volta finito? Se è così sono d’accordo. [edit: effettivamente avevano ragione, l'ho scordato quasi tutto].

“Le sue scene d’azione scorrono, cariche di energia e pathos” PUBLISHERS WEEKLY
Vero. Il problema sono le scene in cui l’autore cerca di raccontare qualcosa. Quelle non scorrono per un cazzo e anzi le parti in cui il vecchietto barbuto narra gli eventi sono ripetitive, noiose, lente e sembrano rivolte a idioti.

“… Una storia di vendetta pulp e avvincente che terrà i lettori incollati alla sedia, trasportati da uno tsunami di emozioni” METRO CANADA
Va bene lo stesso se ero a letto?
“Tsunami” è forse il termine cataclismatico più abusato dopo quello del 26 dicembre 2005. Abbiamo imparato una parola nuova, eh?
Storia di vendetta pulp: OK. Avvincente: mh…non troppo, se proprio vogliamo esser buoni diamogli la possibilità di diventare un capolavoro con il terzo volume, mossa che ritengo comunque dubbia, visto lo sfacelo dei primi due.

Ora, una lancia va spezzata in difesa di Hipp, ma questa lancia porta scritto “disegni” e non “sceneggiatura”. Come sceneggiatura Hipp sembra del tutto immaturo e schiavo del loop di idee che stringe la fabbrica della narrazione, non solo fumettistica ma anche libraria, cinematografica, televisiva e videoludica.
Se Gyakushu! fosse un disco indie-rock, il critico medio (snob e il più delle volte con un’ansia da prestazione in stile esame di maturità) vi direbbe che il suo stile grafico mescola i tipici tratti della scuola underground-pop (non importa che il termine non esista, se lo inventerebbe, perché creare etichette è cool) in stile Jamie Hewlett, con quelli più nobili di un avventurismo à la Mignola e quelli più ricercati di certa scuola giapponese contemporanea, per fare un nome Junko Mizuno di Cinderalla, Pure Trance e Ningyohime. Avreste così un sistema di riferimento triassiale di cui uno non potete non conoscere a meno di essere fuori dal giro, uno lo potete conoscere se siete un po’ navigati, mentre l’altro o siete dei supernerd oppure ciccia.
Graficamente Hipp convince e cattura. Ma si ferma lì.
Gyakushu! è il classico fumetto che viene acquistato per essere sfogliato più e più volte, rapiti dal comparto grafico, ma che viene letto una volta sola a causa della sua limitatezza narrativa.